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Le circostanze di una vocazione

Se si osserva una carta geografica, si vede a colpo d’occhio che Bargone è un piccolo paese che dista da Genova poco più di cinquanta chilometri. Se oggi un ragazzo di questo villaggio dovesse frequentare l’università nella città della lanterna, è assai probabile che lo faccia da pendolare, magari alla guida di un’utilitaria avuta in dono dai genitori.  In ogni caso l’esperienza di uscire dal paese per gli studi non sarebbe una novità traumatica, certamente già si è mosso per le scuole medie e per le superiori. Ed il clima culturale, respirato soprattutto attraverso i mass media, non sarebbe molto diverso da Bargone a Genova.

Due secoli fa l’esperienza vissuta dallo studente fuori sede Agostino Roscelli è stata ben diversa. A quel tempo affrontare cinquantaquattro chilometri con una carrozza a cavalli era un autentico “viaggio”, probabilmente senza insidie, comunque faticoso. Soprattutto il passaggio da un borgo di collina, popolato da poche famiglie, ad una città avviata in quel periodo a rapide e tumultuose trasformazioni urbanistiche e sociali non deve essere stato facile. Non solo per la lontananza dagli affetti famigliari, dagli amici, dall’orizzonte in cui fino a quel momento era vissuto, ma per l’oggettiva impreparazione ad affrontare un mondo per lui del tutto sconosciuto.

A noi che nel XXI secolo siamo ormai abituati ad un mondo globalizzato, nel quale le distanze geografiche e culturali sono di fatto eliminate, colpisce che un adolescente del XIX secolo abbia lasciato il caldo e rassicurante ambiente del paesello natio per affrontare l’avventura della città senza reti di protezione, potendo confidare solo sul proprio senso di responsabilità e sul forte desiderio di verificare una vocazione manifestatasi attraverso numerose circostanze.

Ha, infatti, solo diciassette anni quando, nell’autunno del 1835, Agostino Roscelli arriva a Genova per completare quegli studi che lo porteranno a diventare sacerdote. In mano ha solo l’indirizzo di una lontana parente che abita in Salita del Prione, un’arteria del centro storico che congiunge Porta Soprana, fra le più antiche della città, con Piazza delle Erbe, a ridosso del Palazzo Ducale, oggi teatro della movida genovese. Il giovane Agostino abita quindi nel cuore della città, poco distante anche dalla casa natale della maggior gloria genovese, Cristoforo Colombo. Agostino ha solo quell’indirizzo e nel cuore la volontà di verificare se quell’ideale intravisto a Bargone può diventare la scelta definitiva della sua vita.

Quasi tutti coloro che si sono occupati della sua biografia hanno indugiato sul senso di smarrimento che lui, ragazzo cresciuto in campagna, deve aver provato a contatto con la grande e frenetica città portuale. Il carattere timido, la corporatura smilza, quell’aria schiva e riservata che traspare da una rara fotografia dei primi anni di sacerdozio, tutto questo ha portato a ritenerlo in affanno nell’impatto con Genova. Senza negare le oggettive difficoltà (anche oggi uno studente fuori sede ha bisogno di un periodo di ambientamento nella città che lo ospita), non si può certo ritenere che Agostino viva nel capoluogo ligure come un pesce fuor d’acqua. Tutta la sua successiva biografia ci documenta che è tutt’altro che un uomo impaurito dalla vita, anche quando questa si presenta gravida di contraddizioni.

Il ragazzo è a Genova per completare quegli studi che potranno aprirgli le porte del corso di teologia in seminario necessario per essere ordinato prete. E certamente questo obiettivo è la bussola che lo guida nell’affrontare le piccole e grandi difficoltà che il trasferimento in città gli ha fatto incontrare.

Il valore delle circostanze

Si può facilmente immaginare che, nei mesi del suo soggiorno nel capoluogo ligure, Agostino vada spesso con la memoria a ripercorrere quei fatti e quelle circostanze che lo hanno portato fin lì. Chi l’avrebbe mai detto che il figlio di Domenico e Maria, il ragazzo che portava al pascolo il gregge paterno, sarebbe finito a Genova per studiare da sacerdote? Quanti – aggiungiamo noi – fra i suoi compaesani avrebbero potuto immaginare che quel ragazzo avrebbe lasciato, attraverso una vita esemplare da testimone della misericordia divina, un segno tanto indelebile a Genova che ha portato la Chiesa a riconoscerne la santità?

Lo stesso Agostino Roscelli, una volta diventato maestro di vita cristiana, avrà occasione di proporre ai suoi ascoltatori questa riflessione sul valore delle circostanze: «Nella vita di ognuno, di ciascun uomo, Iddio vede, come ci insegnano le scuole, innumerevoli concatenazioni e serie di avvenimenti, le quali come tante strade maestre conducono altre direttamente alla gloria ed altre direttamente alla perdizione: vias vitae e vias mortis (geremia).  Ora che l’uomo si incammini piuttosto per una di queste strade che per un’altra, dipenderà talora da cose piccolissime: udire o no una predica, leggere o non leggere un libro, profittare o non fare alcun conto di quella ammonizione che vi viene data o fatta caritatevolmente di quel difetto, il far silenzio o non farlo in quella circostanza, andare o non andare a fare quella visita, può essere quello che ci incammini al cielo o all’inferno. Ho detto che ci incammini, perché vedete non dipenderà la nostra salvezza immediatamente da tali cosette, ma ne dipenderà remotamente».

Un pastorello felice

L’avventura umana di Agostino Roscelli comincia a Bargone, frazione montana di Casarza Ligure, il 27 luglio 1818. È l’ottavo figlio di Domenico e Maria Gianelli, uniti in matrimonio dal 28 agosto 1798. Dei fratelli che lo hanno preceduto, solo tre sono giunti alla vita adulta, Domenico Andrea, Tommasina e Virginia, gli altri, come succedeva spesso a quel tempo, sono morti prematuramente. Il piccolo, forse perché si presenta gracile, viene battezzato il giorno stesso in casa; poco più di un mese dopo, il 30 agosto, nella chiesa di San Martino di Tours il rito viene completato dal parroco don Andrea Garibaldi.

Lo scrittore e critico letterario Umberto Fracchia (1889-1930), innamorato di Bargone, così descrive il paese natale di Roscelli: «Quattro case ammucchiate intorno a una chiesa: una fungaia nata ai piedi di un giglio…un paese sperduto in una conca…abitato esclusivamente da contadini, senz’altra musica tranne quella del vento, della pioggia e delle campane…Una pace assoluta, solitudine e silenzio».

In questo paese la famiglia di Agostino riesce a vivere del proprio lavoro, il padre Domenico coltiva un podere in proprietà e alleva anche gli animali. Da quel che sappiamo è una tipica famiglia contadina dell’epoca: lavoro duro, affetti solidi, fede semplice e genuina che permea ogni aspetto dell’esistenza. I figli maggiori già collaborano all’economia famigliare: Domenico Andrea è un ragazzo di quattordici anni ed è già di valido aiuto al padre, Tommasina e Virginia, rispettivamente di dodici e dieci anni, affiancano la mamma nei lavori femminili. Ed anche per Agostino, una volta cresciuto a sufficienza, arriva il momento di rendersi utile. Domenico gli affida le pecore da portare al pascolo, un compito che Agostino assolve con serietà e senso di responsabilità, orgoglioso di potersi finalmente rendere utile. È un bambino dall’animo sensibile e delicato: quando qualche pecora viene condotta al macello, lui si ritira in qualche angolo nascosto per piangere; oppure quando vede la carne ovina servita a tavola, si rifiuta di mangiarla. Una reazione comprensibile in un bambino che trascorre tutte le sue giornate in compagnia di quegli innocui e docili animali.

È un periodo che Agostino vive a quotidiano contatto con la natura, fra i colori e i profumi dei prati, all’ombra del Treggin, la montagna che sovrasta Bargone. È un’esperienza che incide profondamente sul suo spirito religioso; il contraccolpo della bellezza della natura gli suscita quelle reazioni di stupore e meraviglia che portano l’animo umano al riconoscimento della Presenza da cui dipende tutta la realtà. Un’eco di quelle esperienze infantili si ha in un discorso tenuto più avanti alla comunità di religiose da lui fondata: «Lo splendore del sole, la vaghezza dei pianeti, lo scintillio delle stelle, il grazioso aspetto che ha la terra rivestita di tante erbe e variopinta di tanti fiori; la varietà degli alberi, dei frutti, degli uccelli e dei pesci del mare … ci sentiamo presi da meraviglia e attratti dall’affetto verso di essi». E in un altro passo aggiunge: «Si può realmente essere infelici? Sapete, io non capisco come si possa passare accanto a un albero e non essere felici di vederlo. Parlare con un uomo e non essere felici di amarlo! … ma quante cose stupende si vedono ad ogni passo; anche l’uomo più degradato può trovarne di bellissime! Guardate un bambino, guardate l’aurora di Dio, guardate l’erbetta che cresce, guardate gli occhi che vi fissano e vi amano …». Il pastorello Agostino vive la felicità derivante da una conoscenza affettiva della realtà (“meraviglia”, “affetto”) che è propria del senso religioso.

I genitori si accorgono presto che il loro giovane figlio ha l’inclinazione e le capacità per affrontare anche lo studio e ne parlano con il parroco del paese, don Andrea Garibaldi. Il sacerdote accetta volentieri di impartire lezioni private a quel ragazzo del quale non gli erano sfuggite l’intelligenza, l’attenzione al catechismo e l’assiduità nella frequenza alle funzioni religiose. Il bambino si trova così a vivere l’esperienza di studente lavoratore, a dividersi fra il gregge paterno da accudire e gli studi sotto la direzione di don Garibaldi.