Il Sacerdote che ha precorso i tempi
Quando ad una società come la nostra, impregnata di materialismo, di edonismo, di indifferentismo religioso e sconvolta dalla violenza più indiscriminata viene proposta dalla Chiesa, quale esempio, la figura di un Sacerdote umile, dimentico di sé e sollecito solo e sempre della gloria di Dio e della salvezza delle anime, sembra che un raggio di luce tersa e serenante venga a diradare il grigiore cupo che si addensa al suo orizzonte.
Tale figura è quella del santo Agostino Roscelli, decoro e vanto della Chiesa genovese che, esercitando in modo eroico tutte le virtù, ha saputo mettere pienamente in pratica il comando che Dio ha rivolto ai suoi seguaci e, «peculiari ratione», a coloro che, con il Sacramento dell’Ordine, sono stati consacrati più strettamente a Lui:
«Estote perfecti sicut et Pater vester coelestis perfectus est».
Egli, infatti, precorrendo i tempi come può fare chi vive fino in fondo ed in pienezza la chiamata di Dio, ha incarnato in sé quel modello di Sacerdote delineato con autorevolezza indefettibile ed indiscussa efficacia dal Concilio Vaticano II soprattutto nel «Decretum Praesbiterorum Ordinis» , sapendolo fare proprio in tempi nei quali tanto frequenti e duri erano gli attacchi sferrati contro la Chiesa e tanto disattese quelle norme morali che S.S. Giovanni Paolo II ha recentemente e accoratamente ribadito nella mirabile enciclica «Veritatis splendor» .
È la figura di un «Povero Prete» che volle farsi carico dei tanti e vari problemi e delle tante e desolanti situazioni che la vorace società recentemente industrializzata celava dietro la sua opulenza sfruttando le masse indifese e indigenti, facile strumento di guadagno e di illecite speculazioni.
La figura, nel contempo, di un «uomo ricco di fede», che della sua vita ha saputo fare un dono quotidiano di sé per cinquantasei anni di servizio sacerdotale senza riserve e senza scelte personali, accettando, unicamente e sempre, in silenzio ed umiltà, il ruolo che Dio, di volta in volta, gli è venuto affidando.
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In cammino verso il Sacerdozio
Nato a Bargone di Casarza Ligure il 27 luglio 1818 da Domenico e Maria Gianelli, modesti contadini, Agostino Roscelli ha la fortuna di esordire la sua vicenda terrena in seno ad un ambiente familiare saturo di pace, ricco di amore, permeato di fede salda e genuina e radicato su di un senso morale vigile e profondo.
Gli anni dell’infanzia trascorrono tra la custodia del gregge paterno e lo studio, sotto la dotta e solerte guida del Parroco della borgata, Don Andrea Garibaldi, che non esita, pienamente corrisposto, ad orientare l’intelligente giovane verso il possesso di una spiritualità matura e convinta.
Timido e dimesso per natura, Agostino ha in sé quella riservatezza un po’ rude, tipica dei ragazzi di campagna, che non gli impedisce, però, di acquisire gradualmente coscienza delle proprie potenzialità cristiane ed umane, che sente dilatarsi in sé verso più ampi orizzonti.
L’esempio dei genitori, l’istruzione religiosa, il quotidiano contatto con la natura incontaminata, chiaro ed immediato riflesso della voce di Dio, viene maturando e consolidando in lui la capacità di affrontare, in piena libertà di scelta, qualsiasi ostacolo possa frapporsi alla realizzazione di un suo ardito progetto.Progetto che, da sogno vago e quasi inconsistente, giorno dopo giorno si trasforma consapevolmente, nell’intimo del suo animo, in richiamo irresistibile: essere Sacerdote, ad ogni costo.
Tutto in lui, da questo momento, converge verso quella meta; tutto si svolge in funzione di quell’approdo decisivo. Dio, ne è profondamente convinto, gli spianerà la strada.
Nel 1835, infatti, per Agostino allora diciassettenne l’incontro con un’anima illuminata come quella di Mons. Antonio Gianelli, incaricato di guidare una missione vocazionale nell’entroterra ligure, costituisce un orientamento sicuro e una svolta decisiva nel corso della sua vita.
Col pieno consenso dei genitori e la benedizione del buon Don Andrea, il timido giovane, con animo fermo ma velato di struggente tristezza, abbandona quanto ha di più caro sulla terra: mamma, babbo, fratelli, l’accogliente casolare, l’ameno paese, i suoi monti, il suo gregge, per avviarsi verso il grigio dell’ignoto, illuminato da una sola salda certezza: è Dio che lo chiama e lo vuole suo Ministro docile, fedele e pronto a superare qualsiasi prova.
E le prove non si fanno certo attendere. Non è difficile immaginare l’enorme disagio e i timori del povero ragazzo di campagna, trapiantato dalla sana e profumata quiete dei suoi campi nel vortice della capitale ligure per intraprendervi gli studi preparatori al Seminario.
Genova, infatti, è turbata e sconvolta in quegli anni dalla influenza giansenista, dal pullulare di ideologie di ispirazione liberale e da istanze democratiche, alimentate dal fascino esercitato dal misticismo patriottico mazziniano.
Dio, però, non lo abbandona. Gode, anzi, del singolare privilegio di essere aiutato e formato, durante gli anni del Seminario di Via Porta degli Archi, da uomini meravigliosi quali Don G.B. Cattaneo che ne è il Rettore, Mons. Salvatore Magnasco, docente di teologia speculativa, Don Gaetano Alimonda, Beato Tommaso Reggio, suo compagno di studi, e don Giuseppe Frassinetti.
Tra non poche difficoltà, il 19 settembre 1846 aggiunge finalmente l’ambito traguardo: è ordinato Sacerdote da S.E. il Cardinale di Genova Placido Maria Tadini.
VICE PARROCO DI SAN MARTINO D’ALBARO
Primo campo di attività apostolica per Don Agostino è la Parrocchia di San Martino d’Albaro in Genova, in qualità di Vice Parroco. Il neo-Sacerdote intraprende il suo primo ruolo nella vasta messe di Dio con quel tratto tutto particolare che impronterà poi sempre ogni sua prestazione ministeriale.
Pienamente conscio dell’importanza del compito assegnatogli e della gravità dell’impegno assunto, lo assolve fedelmente come un servizio doveroso ma non mai appariscente, adottando fin d’ora lo stile evangelico del nascondimento, della piccolezza, del lavoro sotterraneo, dell’eroismo senza spettatori.
Catechizza i bambini e gli adulti, battezza i neonati, conforta i malati, assiste i moribondi e si dedica ad ogni mansione del culto a totale servizio di Dio e sempre a vantaggio dell’uomo con una fedeltà quotidiana fatta soprattutto di piccole cose, di minuscoli gesti, di donazione senza riserve.
Già in questi anni della piena giovinezza, che solitamente sono gli anni dei facili entusiasmi e del gusto delle grandi azioni, Don Roscelli più che a comparire tiene a scomparire.
Disdegna il gesto clamoroso, perché è intimamente persuaso che i gesti clamorosi non cambiano le persone e difficilmente raggiungono i cuori.
È precocemente giunto a rendersi conto che con l’esporsi in primo piano ci si rende trascurabili di fronte a Dio, a se stessi e al prossimo.
ASSISTENTE SPIRITUALE PRESSO LE CARCERI DI SANT’ANDREA
Nel penoso alternarsi di speranze e di delusioni amare, lungi dallo scoraggiarsi e dall’indebolire il proprio zelo apostolico, Don Agostino nel 1872 accetta l’invito di prestare servizio come assistente spirituale delle Carceri di Sant’Andrea presso Porta Soprana, con l’impegno morale di portare sollievo, aiuto e conforto spirituale e materiale a coloro che gemevano in condizioni veramente disumane in quel luogo triste e squallido, o che dovevano salire il patibolo.
Il generoso Sacerdote entra tra quelle mura impregnate di dolore, di rabbia, di umiliazione e di abiezione.
Passa silenzioso attraverso un mondo di miserie e di abbrutimento.
Le robuste inferriate e i pesanti chiavistelli non lo intimoriscono; ascolta vicende di ogni genere: alcune atroci, penose, ripugnanti, altre semplicemente banali.
È consapevole che il cuore di pietra, in molti casi, non è altro che l’involucro esterno che avvolge un cuore di carne sensibilissimo.
Sa che il disprezzo può essere l’altra faccia di una nostalgia segreta, che la rabbia può essere la maschera della debolezza e che una porta sbattuta in faccia può essere un invito a ritornare.
E Don Roscelli non si lascia sfuggire quell’invito; ritorna una…, due…, tre…, dieci volte, forte della convinzione che ogni seme di bene fecondato dal sacrificio ed irrigato dalle lacrime sa farsi strada anche tra i muri blindati, può smantellare le resistenze più accanite, infrangere le catene più robuste, sgretolare le pietre più tenaci…
Si tratta, ancora e sempre, di pregare e di saper attendere che giunga il momento di Dio: quel momento che, sovente, scocca soltanto pochi istanti prima che il cappio fatale si stringa inesorabilmente attorno al collo dell’infelice, che spira col conforto di una paterna e accorata benedizione.
CAPPELLANO DEL BREFOTROFIO DI VIA DELLE FIESCHINE
Non ancora pago di prodigarsi, nel 1874 Don Agostino assume anche l’incarico di Cappellano del Brefotrofio cittadino, in salita delle Fieschine.
Qui non esita a farsi carico anche delle tristi vicende di migliaia di piccole creature, colpevoli solo di essere nate: senza voce, senza nome, senza diritti, consegnate all’arbitrio di una ruota anonima, muta testimone della loro triste sorte e del disperato gesto di tante infelici ragazze madri che fuggono dissolvendosi nell’ombra, incapace però di attutire la voce martellante della loro coscienza.
Ebbene: il contatto quotidiano con questo piccolo e miserabile mondo fatto di debolezze, di viltà e di lacrime, ove per ben ventidue anni Don Roscelli svolge fedelmente il proprio ministero nel battezzare i poveri neonati e, soprattutto, nel confessare le sventurate madri, lo induce a constatare che queste sono molte e che ad ogni costo qualcosa bisogna fare, che urge portare a compimento il vagheggiato e travagliato disegno di bene che Dio ha fatto gradualmente germogliare nel suo cuore.
NEL CAMPO DELL’AZIONE
Pur avendo trasferito la propria sede in Carignano ove puntualmente svolge anche il delicato ruolo di Direttore spirituale e di predicatore presso alcuni Monasteri femminili della zona, Don Roscelli continua ad assolvere l’impegnativa missione di confessore presso la Chiesa della Consolazione ove, rendendosi sempre maggiormente conto della gravita delle situazioni che gli si presentano e dei pericoli incombenti su tante giovani inesperte, vittime ignare della marcia trionfale dell’industrializzazione, decide che non è più possibile limitarsi ad ascoltare, a confortare, a consigliare e ad assolvere.
Si convince che non basta essere colpiti, sia pure profondamente, dalle pene altrui, che non basta immedesimarsi totalmente in esse.
E convinto che bisogna muoversi in qualche modo, fare qualche cosa, andare incontro non solo con le parole, con l’incoraggiamento, ma anche con le mani, con il cervello, con le opere concrete.
E in questo preciso momento che «il povero Prete» – sono parole di S.E. il Card. Giuseppe Siri – «agì come se fosse stato un Padre della Chiesa, individuando che le vittime si mietevano dove la mancanza di un lavoro autonomo e non in massa, dignitoso e retribuito, esponeva per lucro innocenti e semplici creature ad ogni grave pericolo. Bisognava insegnare loro un mestiere, degno della donna e retributivo, che ovviasse al guaio».
Grazie alla collaborazione pronta e generosa di alcune sue giovani penitenti, appartenenti alla Congregazione di S. Angela Merici lentamente e pazientemente da lui preparate attraverso la direzione spirituale, nel 1864 apre la prima Casa Laboratorio al N. 5 di Via Colombo, alla quale nel 1868 fa seguito una seconda, situata al N. 71 di Borgo Lanieri.