Suore dell'Immacolata

Timore della morte

 

IL TIMORE DELLA MORTE

Lo so che la morte è stimata un boccone così amaro, che si stenta a trangugiarlo da chiunque. O morte, quanto è amara la tua memoria! Il dovere, quando meno ci si pensa, talvolta ancora nel fiore degli anni, nell’età più fresca, lasciare parenti, amici, tutto quanto si ha di più caro sulla terra ed anche questo corpo tanto accarezzato, è cosa spaventosa e terribile.

Ma con tutto ciò, io non posso capire come tra i cristiani, tra le stesse religiose vi siano di coloro che hanno della morte una paura così smisurata, che rifiutano di tenersi in casa un’immaginetta o un ricordo qualunque della morte.

Che temano la morte gli uomini iniqui e malvagi, ben lo intendo: hanno troppa ragione, i miseri, di inorridire al pensiero di quel passo che dev’essere per loro il tragitto all’inferno. Ma che ciò succeda a persone pie e di coscienza, di vita retta e morigerata, questo mi colma di meraviglia. Ciò che rende spaventosa la morte non è altro che il peccato. Parlando, dunque, a persone non solamente cristiane, ma religiose, che vivono abitualmente in grazia, come suppongo che siate tutte voi, devo asserire che non vi può essere alcun ragionevole motivo di temere così fortemente la morte. Che anzi essa è tale di sua natura, da doversi anche desiderare.

Il primo motivo che abbiamo noi di non temere la morte è che questa è la via comune per tutti gli abitanti del mondo: non vi è alcuno sulla terra né nobile, né plebeo, né ricco, né povero, né grande, né piccolo, il quale possa schivare il colpo fatale di questa terribile falce. Questo pensiero era quello con cui Davide rincuorava se stesso: alla fine, diceva, io dovrò far la strada di tutti gli altri; con questo si confortava Giosuè, con questo Giacobbe e con questo si animavano sempre tutti i buoni, i quali, a detta della Scrittura, non temevano la morte, perché consideravano che ciò che è necessario a farsi, conviene farlo con animo sereno.

In verità, non è grande presunzione la nostra, se pensiamo che debba risparmiarci quella morte che non risparmiò nemmeno Abramo, così eccelso in santità; non Giuseppe, così distinto in purezza; non Salomone, così celebre per sapienza; non Rachele, così amabile per bellezza; non Giuditta, così intrepida per fortezza? Queste anime grandi, che avrebbero dovuto, per il bene pubblico, restare eterne qui nel nostro mondo, pure sono morte; ci parrà poi così duro il morire anche noi che, forse, siamo sulla terra come alberi infruttuosi, atti a recarle più disprezzo che gloria, più ingombro che utilità? Non mi dite che non vi duole tanto il morire, quanto il morire così presto.

Che cosa si gode nel mondo di così felice da farci desiderare una vita lunga? Il buon Dio non ci ha dato questa vita molestata da orribili infermità, inquietata da inconsolabili affanni, sempre agitata dall’avvicendarsi di strani avvenimenti? Quanto più avanziamo negli anni, non cresciamo tanto più in miserie, in necessità, in malanni? Perché dunque continuiamo a vivere volentieri quaggiù? A stare con tanto giubilo su questa terra, che non sappiamo risolverci mai a dire: Andiamo all’eternità? Anzi, appena vediamo lontano i segni dell’inevitabile partenza da qui, subito ci si turba il pensiero, ci si gela il sangue, ci si smarriscono gli spiriti? Vorremmo ancora, per canuti che siamo, ottenere la proroga di qualche anno ancora, quasi che non avessimo di là a trovare una dimora tanto migliore della presente, quanto una reggia è migliore di un vile tugurio. Anche quando avessimo qui un trattamento assai comodo, assai cortese, che sappiamo noi se il morir più tardi possa tornare più vantaggioso all’anima nostra che il morire più presto? Quanti, se fossero morti un anno prima, sarebbero in paradiso tra i santi più segnalati, mentre, per aver vissuto un anno di più, stanno ora a fremere nel baratro dei dannati? Perché, dunque, dobbiamo temere la morte, quando questa ci sarà causa di eterna vita?

Quando il contadino vede venire il turbine sui suoi poderi, cerca in fretta di legare le biade, anche se non sono tutte mature, fa tagliare le uve, fa cogliere i pomi, fa che si ripongano gli agrumi anche se non hanno conclusa la loro stagione. Perché, dunque, dovremmo sentire tanto grave che Iddio pietoso usi con noi stessi quel riguardo, quella pietà che usa l’agricoltore con i suoi frutti, affinché non vadano distrutti? Placita erat Deo anima illius. Iddio portava grande amore a quell’anima: ecco il contrassegno che ci diede la S. Scrittura di un’anima diletta a Dio. Iddio aveva grande amore a quell’anima giusta ma pericolante, perciò si affrettò a toglierla dal mondo, non a castigo della sua iniquità, ma a sua preservazione. In verità ditemi, o mie dilettissime, chi è di noi che, vivendo, non sia sempre soggetto agli infiniti pericoli del malfare e così anche del dannarsi? E chi non sa che, finché l’uomo vive, finché naviga nel mare procelloso di questo mondo, è sempre in pericolo di fare naufragio? Che turbine di tentazioni e d’insidie abbiamo sempre intorno! Né ci deve rincrescere di lasciare questo corpo a noi già tanto caro.

I naviganti, perseguitati dai corsari, non ad altro mirano che a salvare le persone. Sbarcati, non si curano che la loro imbarcazione rimanga in preda a quei barbari, anche se ne vedono far sul lido un orrendo scempio. Il nostro corpo si decomponga pure, poco importa, ma l’anima, carica dei suoi meriti, vada salva a riposare in cielo. A riposarsi in cielo? Voi mi direte: allora sì che saremmo contente! Ma chi ci assicura di ciò? Quello che a noi rende così spaventosa la morte è, appunto, il timore del peggio e il sapere che, per molti, essa è il passaggio dalle miserie temporali alle eterne, dal poco al molto patire. Ma non vi ho detto io, fin da principio, che non intendevo predicare a persone immerse nella colpa, le quali, indurite nei loro vizi, incorreggibili nei loro difetti, pare che facciano tutto il possibile per perire? Io parlo per coloro a cui non manca il desiderio della propria salvezza e che, se cadono in qualche debolezza, tornano a risorgere. Tali suppongo che siate tutte voi e così dico che voi, morendo, dovete confidare molto nel sangue preziosissimo di quel Signore che è nostro Salvatore.

A Lui dovete raccomandare ogni giorno, con tutto l’affetto, l’ultimo vostro passaggio, dicendo a Lui quelle devote parole: quando verranno meno le mie forze, o Dio, non mi abbandonare. Ma se oltre a ciò voi bramate che la morte vi apra presto il cielo, fate quello che vi esorto a fare: accettatela volentieri. Si legge nelle divine Scritture di un Profeta che, spedito in tutta fretta al perverso Geroboamo, trasgredì il divino comando di non accettare per la strada inviti, né rinfreschi, né ricovero alcuno da chiunque gli venisse offerto. Per tale disubbidenza egli, nel suo ritorno, fu assalito da un fierissimo leone e da esso ucciso. Ma quello stesso leone, dopo averlo ucciso, stette a custodirlo dalle altre fiere, finché non gli fu data onorevole sepoltura. Ora io domando: questo profeta era peccatore o santo? Se santo, perché il leone l’offese vivo? Se peccatore, perché il leone lo difese dopo morto?

La risposta più nobile a me pare sia quella data da S. Gregorio ed è che il Profeta, quando venne assalito da quella fiera, era peccatore per aver disobbedito al comando di Dio, e che, accettando quella morte con pazienza, in punizione del peccato commesso, divenne santo; perciò, mentre prima fu maltrattato come uomo comune, poi fu venerato come uomo celeste.

Se, dunque, volete aver sicurezza che la morte sia per voi principio di tanta felicità, offritevi a riceverla volentieri, quando a Dio piaccia. Con ciò voi farete un atto di perfettissima carità, il quale toglierà da voi ogni residuo di peccato e la morte, perciò, vi ammetterà senz’altro al possesso di Dio.

Un altro motivo di non temere, ma desiderare la morte, è la consolazione che proverà l’anima giusta quando, finalmente, saprà con certezza infallibile di essere in grazia di Dio. Che allegrezza! Che giubilo! Chi non sa che nessuna cosa preme di più alle anime giuste che la certezza di essere in grazia? Per piacere agli occhi di Dio esse attendono ai digiuni, alle preghiere e alle discipline, che sono i mezzi per renderci più graditi a Dio. Con tutto ciò, però, esse non hanno chi le assicura di quanto bramano. Hanno sì molti che, mossi da pietà, dicono loro che non si affliggano perché non resta in loro alcuna macchia e che tutte le loro opere sono rette, ma le poverine non si possono tranquillizzare con le testimonianze umane. Ne deriva quel sospettare con Giobbe della loro azione più minuta; quel dubitare con Davide di ogni loro fantasma più occulto: ab occultis meis munda me; quell’esclamare affannosamente con Paolo: Benché di nulla mi accusi la mia coscienza, io non sono sicuro di essere giustificato.

Quale gioia proveranno queste anime giuste, quando la morte presenterà loro quel lucidissimo specchio del giudizio particolare, in cui guardandosi potranno subito pronunziare: Sono mondo – o quasi. O delizia, o dolcezza quasi indicibile! Sapere con certezza che sono amata da Dio, che sono eletta nella gloria, che sono salva!

Un Dio, sul trono della sua gloria, ci aspetta per svelarci il suo bellissimo volto, per metterci a parte dei suoi segreti, per introdurci al possesso dei suoi tesori. E noi, potendo ottenere presto un così grande bene, domandiamo proroga, chiediamo indugio? O debolezza, o viltà! Mosè ardeva di un desiderio accesissimo di vedere la faccia del Signore, perciò un giorno, venutagli l’opportunità di parlargli familiarmente, si fece animo e, con timoroso ardimento e vivo affetto, gli presentò questa

supplica: «Mostrami la tua faccia!». Ma, avendogli il Signore risposto che per vederLo bisognava morire, tutto ad un tratto il buon vecchio si perdette d’animo. Il fatto è che non ebbe più coraggio di aggiungere altra istanza. Nel considerare questo fatto, restò sorpreso S. Agostino e, stupito di tanta freddezza, non poté contenersi dal gridare: Ci voleva tanto per Mosè accettare la proposta e dire: «Io morrò?». Se Voi, o Dio, non mi chiedete altro per vederci, se non che io muoia, sono contento ed accetto tale condizione: si chiudano pure questi miei occhi. Desidero unicamente Voi, mio Dio; fuori di Voi desidero nulla. Con Voi voglio essere, a Voi bramo venire. Se di spiccare così grande volo me lo impediscono solo questi lacci mortali, che si aspetta? Io non chiedo, con l’Apostolo Paolo, che si sciolgano i miei legami: cupio dissolvi, ci vuol troppo tempo; ma si strappino per far più presto, si tronchino, si recidano! Così esclamava l’infervorato Agostino, arrivato a conoscere in parte che cosa vuol dire vedere la faccia di Dio.

E noi che diremo? Per vedere Voi, mio grande Signore, distinto in tre persone divine, non vi sarà nessuno che desideri di morire? Dirò cosa incredibile, ma vera. Si trovano persone che, se Dio volesse lasciarle in terra, in quello stato in cui vivono al presente, sarebbero pronte a rinunziare per tutti i secoli al paradiso. Non è questo un motivo di stoltezza e d’infedeltà? Che faremmo se non fossimo il popolo da lui diletto, portato nella sua chiesa, nutrito col suo sangue, privilegiato con tanti segni di specialissimo amore? Abbiamo peccato, è venissimo, ma non è Iddio pronto ad assolverci e perdonarci? Siate certe che per noi è la Sua gloria, se la vogliamo.

Siamo figli di Santi. Che conforto! Animo, dunque! Animo, mie dilette figlie. Dove mai vi fu alcuno che andasse di mala voglia a ricevere la ghirlanda dopo la lotta, il palio dopo la corsa, il trionfo dopo la vittoria? Non siamo noi quelli che preghiamo ogni giorno con calde istanze che venga il regno dei cieli? Adveniat regnum tuum? E come dunque amare tanto la prigione della terra? Sappiamo che i ruscelli non si danno pace finché non arrivano a gettarsi in mare. Siano pur fiorite le valli dove passano, siano ben coltivati gli orti, siano ameni i giardini, ma i ruscelli mai s’arrestano per questo e, mormorando, sembrano dire: al mare, al mare!

E noi andremo con meno impeto ad unirci col nostro Dio? No, dilettissime, concluderò oggi con S. Cipriano: Mente integra, fide firma, virtute robusta. Siamo preparati a qualunque divino volere ed, escluso il timore della morte, andiamo disponendoci alla nostra immortalità. Consideriamo che in questo mondo non è la nostra dimora, ma siamo ospiti di passaggio. Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus. Nostra patria è il paradiso. Padri nostri sono quei Santissimi Patriarchi, quei Profeti, quei Martiri, quegli Apostoli. O quanti amici, quanti parenti colà ci aspettano!

Presto, dunque, presto, aneliamo di gettar loro le braccia al collo, di godere della loro vista quanto prima, di udire le loro voci, di stare con essi in perpetua felicità! Si decomponga pure questo mio corpo purché, il giorno della morte, io ritrovi il vero riposo. Che io ascenda (o me felice se ciò sarà vero), che mi sollevi, trapassi le nubi e vada a ritrovare quel popolo a me sì caro che lassù nel cielo mi sta aspettando, disposto a ricevermi: fiat, fiat. Amen.