Suore dell'Immacolata

Amore di Gesu verso gli uomini nel patire per essi 1

 

AMORE DI GESÙ VERSO GLI UOMINI NEL PATIRE PER ESSI

(Prima Istruzione)

S. Lorenzo Giustiniani, parlando della divina carità, dice che il nostro amore verso Dio, per essere vero e sincero, deve portare con sé questi tre caratteri, cioè:

1) pensare frequentemente a Dio;

2) parlare volentieri di Dio;

3) patire per Dio.

Questi stessi sono i caratteri che deve avere l’amore che dobbiamo al prossimo, perché, come abbiamo detto un’altra volta, l’amore di Dio e l’amore del prossimo sono due fratelli, due figli della stessa madre: la carità.

Come chi pensa frequentemente a Dio, parla volentieri di Dio con amore sincero; così mostra che ama di vero amore il suo prossimo, colui che per il suo prossimo fa tutto il bene possibile: dice quanto sa in suo favore e soffre per lui qualunque oltraggio.

Al contrario, come non può dire di amare Dio colui che pensa poco a Lui, che non sa articolare parola di Dio né delle Sue perfezioni infinite, e non vuole soffrire alcuna cosa per Dio, per la Sua gloria ed onore; così si deve dire che non ama il prossimo colui che per un suo fratello, per una sua sorella, per un suo compagno, per un suo amico, anzi per un suo stesso nemico, non fa quanto può, non dice quanto sa in suo favore, e non vuole tollerare un benché minimo disturbo.

Ma Gesù Cristo, Signore nostro, è un vero amico, il solo fedele fra quanti ne possiamo avere; Egli ci ama con schietto e sincero amore, e proprio perché ci ama di vero amore, noi troviamo espressi mirabilmente nel Suo amore verso di noi i tre caratteri accennati sopra.

Sì, Egli non solo fece per noi, per il nostro bene quanto poté; non solo disse quanto seppe ideare per noi di vantaggio e di utilità, ma volle darci ancora una prova più luminosa e più certa della Sua tenerezza, quale fu quella di patire e morire per noi, che è il terzo carattere del vero amore. E questa prova, affinché fosse più autentica, più solenne, più tangibile, volle darcela nel modo più splendido, morendo per noi sull’alto di una croce, in un mare di tormenti, di ingiurie e di spasimi.

O Gesù, innamorato delle anime nostre! Chi potrà rimanere freddo e insensibile a tale spettacolo? Io sento che il cuore mi si stringe a tanta dimostrazione dell’amore Vostro. Ora comprendo perché i Santi erano così assidui nella meditazione dei Vostri dolori; Essi scorgevano in questi la prova più evidente del Vostro infinito amore e ne traevano ardenti fiamme di riconoscenza e di amore.

È vero, io non sono santo, anzi sono un miserabile peccatore, tuttavia, ad imitazione dei Santi, io pure voglio meditare le Vostre pene, o mio Gesù, o meglio l’amore infinito con cui Voi soffriste per me. Io dunque, in così dolorosa meditazione imiterò i Santi e dirò col glorioso S. Bernardo: «Che è questo, o buon Gesù? Noi abbiamo peccato e Voi ne portate la pena. Questa è opera che non ha l’eguale; è grazia che non può supporre alcun merito; è carità che non conosce misura».

Sì, è opera senza esempio che un Dio patisca per l’uomo; è grazia totalmente indebita che Dio patisca per un uomo colpevole e reo; è carità che non conosce confine che Dio patisca infinitamente per questo uomo ingrato.

Ecco, mie Figlie, che cosa dobbiamo riflettere nella presente istruzione: l’eccesso dell’amore che ci dimostrò Gesù Cristo vero Figlio di Dio e nostro divino Maestro, nel patire e morire per noi.

Idea certamente divina è quella che Gesù Cristo ci fa concepire del Buon Pastore, che da la sua vita per le sue pecorelle.

Ma un buon pastore simile, dove mai si era visto? Se noi parliamo di pastori che conducono il gregge al pascolo, è inutile cercarne di simili. Infatti, vi è forse tra essi chi si lascia uccidere per le sue pecorelle? Non è ancora egli stesso che le uccide, che si veste delle loro lane e che si ciba delle loro carni?

Se noi parliamo di pastori spirituali, preposti al governo delle anime, basta leggere il cap. 34 di Ezechiele per vedere quali pastori si trovassero in Israele, prima che Gesù Cristo venisse nel mondo. In senso metaforico il Profeta dice che essi non solo non si lasciavano uccidere per la salute del loro gregge, ma essi stessi uccidevano le pecorelle più grasse, si nutrivano delle loro carni, si dissetavano del loro latte e del loro sangue, e per dire tutto in una parola: i pastori pascevano se stessi e non pascevano le pecorelle del Signore. Così si lamentava Iddio per bocca del suddetto Profeta.

Dunque un Pastore così buono, che desse la vita per le Sue pecorelle, non si era ancora visto da che mondo è mondo. Solo nella Passione e morte del nostro adorabile Salvatore si trova realizzato questo atto di carità immensa.

Eravamo noi tutti, come pecore del nostro Dio, dice Isaia. Ora che cosa si fa delle pecore? Si uccidono: e Dio avrebbe potuto, per il diritto di vita e di morte che ha sopra le Sue creature, ucciderci tutti come pecore da macello. Sì, lo poteva, – dice lo stesso Profeta – non c’è dubbio, tanto più che noi eravamo incorsi nel Suo sdegno, allorché a guisa di pecore indisciplinate, lasciato il santo ovile, eravamo passati a pascoli vietati a cogliere fiori di piaceri e a spargere semi di iniquità. Poteva, dunque, Dio punirci tutti con morte eterna e mandarci a quell’eterno supplizio che purtroppo avevamo meritato. Ma ecco il Buon Pastore, ecco l’atto di carità così eroico, di cui non si era mai visto esempio fino allora. Viene sulla terra Gesù Cristo, Signor nostro, si fa uomo come noi, si lascia uccidere come una pecorella che non si ribella né apre bocca per lamentarsi, e con il Suo sangue e la Sua morte, placato lo sdegno del Padre, merita per noi un vero e perpetuo diritto alla vita eterna.

Dopo ciò, non vi pare Sorelle mie, che Gesù possa dire e ripetere con ragione che Egli è il Buon Pastore? Sì, certamente, perché in verità il Pastore così buono, che dà la vita per le Sue pecorelle, non è che Lui solo. Ora come dovranno corrisponderGli queste pecorelle da Lui strappate alle fauci del lupo infernale? Come potranno dimenticarsi di Lui?

Ma Gesù, per maggiore tenerezza aggiunge che conosce tutte, ad una ad una, queste pecorelle per le quali Egli muore; così che Egli non muore per esse alla cieca, non muore senza affetto, ma conoscendole tutte indistintamente, tutte singolarmente le ama. Questo ancor più mi commuove e sempre meglio dimostra che Gesù è quell’ottimo Pastore, al quale è vano cercare chi Gli rassomigli.

Ma quanto mi atterrisce ciò che Egli subito aggiunge: «E le mie pecore conoscono Me». Mio Gesù, se io veramente Vi conoscessi, ben diversamente Vi amerei! Non sarei così freddo, così ghiacciato nel meditare che Voi siete morto per me, se Vi conoscessi davvero! Vivrei come vivo, se riflettessi che se ora vivo e se spero di vivere poi sempre in cielo, tutto mi viene dal Vostro amorosissimo Cuore, il Quale Vi spinse a dare la vita per amor mio? Dunque, non Vi amo come dovrei, e non Vi amo perché non Vi conosco, e se non Vi conosco non sono dunque nel numero delle Vostre pecorelle. Che terribile conseguenza sarebbe questa per me, se non mi tornassero opportune alla memoria quelle altre amorosissime parole: «Ho altre pecorelle che non sono ancora del mio ovile, ma anche queste Io devo ricondurre; esse pure udranno la mia voce e si farà così un solo ovile sotto un solo Pastore». Ecco, o divino Pastore, la più traviata di queste miserabili pecore: sono io che, udito l’amorevole Vostro richiamo, a Voi ritorno pregandovi di avere pietà di me. Il mio lungo errare lontano da Voi, mi ha reso affannoso il respiro e lento il passo, ma Voi confortatemi, o Pastore Divino, accoglietemi sul Vostro petto ed io, rinvigorito dalle fiamme del Vostro amore, Vi seguirò con lena sulla via della perfezione e non Vi lascerò mai più.

Ma chi è, Sorelle mie, Costui che si è lasciato uccidere per nostro amore e che morendo ci ha dato la vita? Fosse Egli anche l’uomo più abbietto del mondo, l’opera della Sua carità sarebbe senza esempio né dovremmo cancellarla mai dalla nostra memoria, poiché non si vide mai nessuno che sia morto per dar la vita ad un altro.

Ma Gesù non è l’uomo più abbietto del mondo; Egli è il creatore del Cielo e della terra, il Verbo eterno del Padre per cui tutte le cose sono state fatte e tutte si conservano; è quell’infinita Maestà che lodano gli Angeli e gli Arcangeli, innanzi alla Quale tremano i Principati e le Dominazioni; Quella al cui cospetto i Cherubini e i Serafini non cessano mai di cantare: «Santo, Santo, Santo è il Signore, Dio degli eserciti; piena è tutta la terra della Sua gloria». Per dirla con l’energica frase del Principe degli Apostoli, Gesù è l’Autore della vita che si è lasciato configgere in croce per noi. Un Dio morto per l’uomo!

Quando mai gli stessi gentili, come dice S. Alfonso M. de’ Liguori, che si plasmavano i loro dei a capriccio, sono giunti ad inventarne uno, il quale tollerasse per la loro salute anche un minimo dolor di capo? Tali finezze di amore, non sarebbero mai entrate in un cuore umano, se il divin Cuore di Gesù non le avesse insegnate.

Venuta dunque, dice S. Paolo, la pienezza dei tempi, Iddio manda dal Cielo il Suo unico Figlio, Che fattosi uomo nel grembo di una Donna, si assoggetta alla legge per riscattare coloro che erano sotto la legge, e così dar loro l’adozione di figli. Il Padre tanto desiderava la salvezza degli uomini che sacrifica il Suo caro Unigenito, il Quale uniformandosi ben volentieri all’amoroso disegno del Padre, dalla beatitudine eterna viene in questo esilio di pianto, all’unico fine di morire per noi.

Benedetto Colui che viene nel nome del Signore; benedetto l’Autore della benedizione eterna, poiché ha voluto farsi maledetto per noi e così liberarci dalla maledizione eterna; benedetto l’Autore della vita, il Primogenito di Dio, il Quale per noi si è fatto obbediente fino alla morte, affinché noi avessimo l’abbondanza della vita, e vivendo per Lui, non più vivessimo per noi stessi, ma solo per Colui che è morto per noi. Così ci esorta S. Paolo nella seconda lettera ai Corinzi.

Sorelle mie, vi pare forse che si esiga troppo da noi, esigendo che spendiamo tutta per Dio quella vita che Egli ci donò, a prezzo di tutto il Suo prezioso sangue?

Perfino i gentili delle Indie, nell’udire annun-ziare da S. Francesco Saverio l’amoroso sacrificio di un Dio che muore per gli uomini, non potevano trattenersi dall’esclamare: «Quanto è buono il Dio dei cristiani!».

Vedendo, poi, che i cristiani ingrati non cessavano di offendere un Dio così buono, non sapevano indursi a credere che fosse vero quanto loro si an-nunziava; e così, sovente, a causa del cattivo esempio, preferivano rimanere nelle tenebre della loro ignoranza.

E noi, mie care Figlie, potremo non riamare di sincero amore questo Dio così buono? Potremo volgere ad altri, fuorché all’amabilissimo Gesù, gli affetti del nostro cuore? Mio Gesù e mio Dio, morto per i miei peccati e risorto per la mia giustificazione, che cosa direbbe mai un pagano se vedesse il modo con cui io corrispondo al Vostro amore? Non basterebbe questo a gettare il discredito su quanto viene loro insegnato e rimanere così nella loro idolatria?

Vedete, dunque, o Signore, che la freddezza del mio amore ridonda in certo modo a Vostro danno? Vedete che i peccatori non si vogliono convertire, se non vedono, dalle mie opere, che io Vi amo? Datemi, dunque, questo amore operoso; amore che parta da un cuore generoso e cerchi, per quanto può, di ricambiare l’Opera senza esempi che Voi mi avete mostrato con il patire e il morire per me. Amen.