Suore dell'Immacolata

La carita 5

 

LA CARITA’ FRATERNA

Ambulate in dilectione (S Giov I, cap III)

La carità fraterna è una legge così universale che si estende a tutti gli uomini: è un precetto tanto rigoroso che obbliga ogni cristiano sotto pena di essere escluso dalla patria del cielo; è la nobile divisa che distingue ì veri dai falsi seguaci del Crocifisso; è la veste nuziale senza di cui ogni figlio di Redenzione non potrà mai essere ammesso al convito del Figlio di Dio.

Ma per una comunità religiosa, la carità fraterna è la base e il fondamento su cui poggia questo edificio spirituale, è l’aureo vincolo, che, come cemento, collegando e unendo insieme le parti che costituiscono questa nuova città e bella casa di Dio, la rende inespugnabile e indistruttibile.

Come un edificio materiale, dice S. Agostino, quando sono ben cementati i mattoni e le pietre, si erge sicuro senza timore di rovina, così una comunità religiosa, dove regni e trionfi la carità fraterna, è sempre sicura e non teme disfacimento.

Al contrario, se in una comunità non c’è carità, se non vi risplende questa fiamma dell’amore fraterno, se non vi rimane continuamente questa bella figlia del cielo, essa non può sussistere, necessariamente si sfascia e s’incammina verso la rovina a grandi passi.

Per questo i santi fondatori di ogni ordine religioso, sul finire dei loro giorni, non raccomandarono ai loro figli e figlie spirituali nessuna altra cosa più della fraterna carità. Infatti uomini saggi e donne forti quali erano, illuminati da luce divina, capivano bene che, senza questa vitale virtù, non potevano aver lunga durata le famiglie religiose da essi fondate.

Piacesse al cielo che questa verità non ci venisse ogni giorno confermata da dolorose esperienze! Con nostro rincrescimento, vediamo intere e numerose comunità totalmente rovinate e distrutte da questo male, perché in esse non vi è amore fraterno e carità vicendevole; molte altre, per difetto di una così importante virtù si trasformano, al dire di S. Agostino, da case di Dio, in case di disordine; da luoghi di salvezza, in luoghi di nessun fervore e di nessuna santità.

Perciò nulla deve stare più a cuore ad ogni anima religiosa della carità fraterna: infatti, dice un pio autore, prima di applicarsi a divenire persone di orazione, prima di essere delle penitenti, prima di impegnarsi, se occorresse, a dare il sangue e la vita per la nostra santa fede, e prima di adoperarsi nel fare, se fosse possibile, strepitosi prodigi, i religiosi abbiano una continua, vicendevole carità.

Sì, dice l’evangelista Matteo, amare il prossimo come se stessi è il più grande, il più gradito, il massimo degli olocausti e di tutti i sacrifici.

La fraterna carità è, insomma, l’albero misterioso alla cui ombra, quasi novello Elia, deve ristorarsi ogni persona consacrata a Cristo, se desidera ascendere alle alte cime del monte santo delle virtù cristiane e della perfezione religiosa.

Lasciate dunque, rev. suore, ch’io tratti della carità fraterna e vi mostri i suoi divini caratteri, affinché possiate conoscere se vi sia tra voi così bella ed importante virtù, o che cosa dovete fare per ravvivarla o farne acquisto, se si fosse illanguidita o l’aveste smarrita.

Per non ingannarvi in cose di tanta importanza, conviene osservare fin da principio, che differenza passa tra l’amore che deve animare i seguaci di Gesù Cristo, e quello dei mondani.

L’amore da cui sono dominati gli uomini comuni si fonda, per lo più, sull’interesse, o sul merito supposto della persona amata; se cessa il primo o viene meno l’altro, si scioglie il vincolo che teneva uniti gli uni agli altri.

La carità, al contrario, che viene comandata da Gesù Cristo, non esclude nessuno, né mai arresta il suo corso, qualunque ostacolo incontri. Infatti essa ci fa vedere nel prossimo l’immagine di Dio; tutti siamo fratelli nell’esilio, tutti destinati al medesimo fine di godere ed amare Dio in eterno, tutti redenti dal sangue del Figlio di Dio, morto per tutti e, al dire dell’apostolo Paolo, uniti in un sol corpo e in un solo spirito. Quindi si ama il prossimo, sebbene non ci si aspetti nessun vantaggio, né spirituale né corporale.

L’amore dei mondani invece consiste ordinariamente in semplici parole, in espressioni di sterile compassione o inutili complimenti: oppure credono di amare il prossimo, perché non fanno alcun male. Ma questo è un errore detestabile, un inganno madornale, perché l’amore che dobbiamo a tutti i nostri fratelli, deve essere operoso, deve consistere, non tanto nelle parole, quanto nei fatti. « Filioli – è l’evangelista S. Giovanni che vi avverte – filioli mei, non diligamus verbo neque lingua, sed opere et ventate ».

Sì, la carità, come insegna S. Tommaso d’Aquino, è una virtù di precetto essenzialmente ordinata all’atto e, per eseguire quest’atto, è necessario assolutamente amare i nostri simili con le opere concrete, cioè amarli come noi stessi. Quest’amore insegna S. Giovanni Crisostomo, non deve essere alimentato in noi da qualche motivo terreno: non dobbiamo amare solo per motivo di parentela, di patria, di sentimento naturale, di amicizia, di favore, ma soltanto per Dio, in Dio e secondo Dio, poiché, per questa ragione sola, è accetto a Dio. Quindi è necessario che ci mostriamo affabili e cortesi col prossimo, specialmente con coloro che vivono con noi, vestono la nostra stessa divisa, hanno in comune con noi l’ufficio, il tetto, la mensa. E’ necessario che li serviamo nelle loro necessità, li consoliamo se afflitti, li coadiuviamo nell’adempimento dei loro doveri o uffici, se a loro fa piacere; che parliamo loro con amabilità, li correggiamo, se occorre, ma sempre con amorevolezza fraterna. E tutto questo non per un determinato tempo, ma sempre; non con alcune consorelle soltanto, ma con tutte; non in questa o in quell’occasione ma sempre, poiché la carità cristiana ha come indispensabile carattere il non venir mai meno. La carità che nello scorrere del tempo si estingue, l’amore che svanisce per una parola, per una frase male intesa, per un gesto male interpretato, per un sospetto o un pensiero di gelosia, non è carità sincera, non è vero amore, è invece carità falsa, amore apparente e bugiardo.

E come la carità è un precetto che comprende tutta la legge di Dio, si estende a tutti i tempi ed obbliga ogni persona, così non riconosce limitazioni di sorta: tutto abbraccia, in tutto deve trionfare.

Premesso questo, vediamo ora, con l’apostolo Paolo, quali siano i pregi e le singolari prerogative di questo amore fraterno che dev’essere l’anima e la forza vitale di ogni comunità religiosa. La carità, egli dice, è paziente e benigna, non è invidiosa e non opera inutilmente; non si gonfia né sa pensar male di alcuno; tutto sopporta, tutto soffre, tutto spera.

Che cosa dovete fare dunque, o vergini elette dal Signore, per stabilire in voi la carità fraterna vicendevole? Voi dovete molto tollerare, molto dissimulare, opporvi all’amor proprio e cedere perfino nei vostri piccoli diritti, per conservare nella comunità la pace, l’unione e l’amore. E siccome questo è il maggior bene, anzi tutto il bene, poiché, come dicevo da principio, le comunità dove sono dissensi e partiti non sono più case di Dio, ma di Lucifero, così bisogna preferire questo bene a tutto, e sacrificare tutto pur di conservarlo.

Il partito migliore che le suore possono accettare è quello di fare tutto il bene che possono alle consorelle, e tollerare tutto il male che può esser loro fatto, senza alterarsi mai, senza concepirne avversione e senza alcun risentimento.

Purtroppo, qualche volta, sarete obbligate a vivere con qualche religiosa fastidiosa e difficile, che può risvegliare in voi una certa antipatia; dovete tuttavia stabilire con lei rapporti di vero e fraterno amore; dovete procurarle, all’occasione, tutto il piacere che potete, anche senza speranza che l’apprezzi e lo gradisca, perché in tal caso, al dire di S. Gregorio Magno, dimostrate il vero amore cristiano, la vera carità religiosa, che non ha altro oggetto che Dio – charitas benigna est.

Ma non si fermano qui i doveri della carità. La vera carità non sente mai invidia dei talenti che altri hanno in maggior numero, poiché – charitas non est invidiosa – e l’invidia è vizio detestabile, cosicché per testimonianza di S. Giovanni Crisostomo, non si possono trovare motivi per scusarla. Purtroppo, questo vizio si annida anche nell’animo di tante e tante religiose. E’ ben noto che l’invidia consiste nel rattristarsi del bene, della prosperità, dell’avanzamento altrui; ebbene, uno spirito che si lascia dominare da tale passione, facilmente è indotto a dir male di coloro che, per qualche prerogativa, lo superano; giunge persino all’odio e a desiderare loro del male, quasi che l’onore ed il merito che essi si acquistano, ridondi a sua confusione, a suo danno. Prova di questa verità l’abbiamo negli scribi e nei farisei, i quali, presi dalla gelosia e dall’invidia alla vista delle opere meravigliose e della stima che acquistava il Divin Redentore presso le turbe, si diedero a mormorare di Lui, a screditarne la dottrina, i miracoli, la santissima vita. Però, esclama il Ven. Beda, un tale linguaggio accresceva l’innocenza di Gesù e rivelava la malignità dei perfidi accusatori.

Piacesse al cielo che l’invidia non diffondesse il veleno della sua malignità, per mezzo di deprecabile maldicenza e di rancori, nelle nostre comunità! Si lamentano, a questo proposito, dei casi lacrimevoli. Se una religiosa, infatti, si mostra indefessa, zelante nell’esatto adempimento della S. Regola; se accorre pronta, lasciata ogni altra occupazione, ai segni delle osservanze comuni, la suora invidiosa dice che ella avrà il suo interesse o qualche suo fine, che vorrà cioè essere lodata ed apprezzata.

Se una Superiora si acquista la stima della comunità per il suo saggio governo, per la prudenza ed avvedutezza nel prevenire e impedire ogni disordine, per l’amabilità con cui corregge chi ha sbagliato, per l’amore e la cortesia con cui accoglie chiunque ricorre a lei, per lo zelo, insomma, con cui cerca di promuovere sempre il maggior bene della comunità e procura di persuadere le suore alla pratica della virtù; se una suora si trattiene un po’ di più col suo direttore per aver luce sulle cose dell’anima sua o se per motivi di salute è costretta ad aversi qualche riguardo, ecco che certe religiose, che forse si stimano fra le più perfette, mormorano ed accusano superiore e consorelle di troppo rigore, o di troppa indulgenza, o di parzialità, o di troppo amanti dei propri comodi.

Invece, non risulta chiaramente che un tale linguaggio scopre i meriti del soggetto denigrato e la malignità di chi lo biasima? S. Agostino, infatti, dice che nessuno ha invidia o s’ingelosisce di una persona miserabile. E qui non voglio tacere ciò che, a questo proposito, asserisce S. Bernardo: quando la mormorazione si è impunemente introdotta in una comunità, toglie la pace e la santità, e rende un inferno la casa di Dio e le religiose dei demoni. Infatti la passione di mormorare semina discordie e divisioni, ed è dannosissima alle religiose.

Ma tralasciamo questo argomento increscioso e passiamo ad altro. La carità continua l’Apostolo, non prende mai motivo dai falli altrui per insuperbirsi, giacché, soggiunge il santo abate di Chiaravalle, quello che ad altri accade, può succedere anche a noi, che siamo ugualmente soggetti alla debolezza ed alla miseria morale.

La carità, inoltre, non si ferma mai a pensar male di qualcuno. Eppure di quanti sospetti e giudizi teme-rari si rendono responsabili certe religiose riguardo al prossimo ed alle consorelle! Questi giudizi inducono alla inquietudine, se non alla collera; suscitano le mormorazioni, infrangono i vincoli della carità, che è la bella caratteristica delle vere spose di Cristo.

O mie dilettissime, persuadetevi che non c’è altro vizio in cui si cada tanto facilmente, senza neppure avvedersene. La superbia, la malignità, la leggerezza di spirito ne sono le cause ordinarie. La superbia, infatti, ci fa credere di avere intelligenza sufficiente per penetrare i disegni del nostro prossimo; ci si compiace di trovare in altri dei difetti; ci si lusinga di superare gli altri nei meriti.

La malignità ci fa credere che i nostri simili siano maliziosi come siamo noi e, per conseguenza, giudichiamo nel peggiore dei modi quanto essi operano. La leggerezza di cuore, finalmente, ci porta a secondare i sinistri pensieri che intorno ai loro pretesi difetti si sono concepiti; a condannarli senza motivo e senza ragione, mentre, se avessimo una vera carità, non giudicheremmo i difetti altrui, non li vedremmo forse neppure, come c’insegna S. Pietro, perché la carità saprebbe ricoprirli tutti. Vorremmo noi arrogarci l’autorità di giudicare gli altri? Quest’autorità appartiene tutta e solo a Dio. Guardiamoci dunque dal giudicare il prossimo, per quanto colpevole egli sia, per quanto palesi siano i suoi difetti. Se non potete dissimulare le mancanze, i falli altrui, continua San Bernardo, scusate almeno l’intenzione, l’ignoranza forse, la violenza delle passioni e delle tentazioni, in cui, del resto, anche voi potete incorrere.

E non basta ancora: questo fraterno amore vi deve rendere pronte a tollerare tutti i difetti del prossimo senza inquietudine, così che esuli dal vostro cuore ogni amarezza e dalle vostre labbra ogni parola spiacevole e sgradita. Se volete stabilirvi nella vera carità, dovete procurare, ad imitazione del profeta, di vivere in pace anche con coloro che sono nemici della pace, dissimulando il vostro dispiacere e la vostra amarezza.

Quale spettacolo è più bello che vedere una moltitudine di religiose che vivono insieme in perfetta unione; che tutte sono un cuor solo ed un’anima sola, come riferisce S. Luca dei primi cristiani?

Una comunità religiosa, dove regna la carità, for ma l’oggetto più caro delle compiacenze di Dio, poiché il Signore si compiace di vedere le sue spose predilette abitare in « unum », cioè in una sola volontà di servire Lui, di aiutarsi le une le altre con carità, per operare il bene e salvarsi, e per trovarsi poi unite perpetuamente a lodarlo nella patria dei santi.

Se voi dunque, rev. suore, riuscirete a fondare tra voi il regno soave della fraterna carità, voi avete assicurata la vostra salvezza. A nulla anzi vi servirebbero tutte le più eccelse virtù, le orazioni, le austerità, i Sacramenti stessi, se vi mancasse l’amore fraterno.

E questo vicendevole amore, continua S. Agostino, vi viene cento volte inculcato, perché, senza questo, tutto il resto non conterebbe; nel giorno del giudizio, conclude lo stesso santo, la sola carità sarà l’insegna che distinguerà i reprobi dalle vere spose di Cristo.

Infelice la religiosa che non amasse il prossimo e le sue consorelle nella maniera che Dio comanda! Ella incorrerebbe nella terribile sentenza di S. Giovanni Evangelista: « Qui non diligit, manet in morte ». E vorrà ella dannarsi dopo aver trascorso tanti anni in religione?

Carità dunque, sorelle mie, carità vicendevole, amatevi le une le altre. « Non ho timor di Dio, esclama Davide, se non ho una stabile pace col mio prossimo ».

« Io non posso, aggiunge S. Agostino, entrare in paradiso, soggiorno di pace, senza una costante carità ».

Se qualcuna, dunque, capisce d’aver in passato mancato a questo così grande ed importante precetto

della carità fraterna, se ora conoscesse di non aver avuto verso le consorelle e verso il prossimo un amore paziente, benigno, sincero, ne chieda umilmente perdono al benignissimo Gesù e fermamente risolva di non amare più, d’ora in poi, con amore naturale, egoistico, interessato.

Amatevi, sorelle mie, con amore veramente divino, in ordine a Dio, come è prescritto dallo stesso nostro Signore! Ambulate in dilectione.

Amen.