Suore dell'Immacolata

L’ascolto

Conferenza del Prof. Giuseppe Colombero

Ai volontari del Telefono Amico Torino

Molto tempo fa, in Cina, c’erano

due amici, l’uno molto bravo a

suonare l’arpa e l’altro molto

bravo ad ascoltare.

Quando il primo suonava o

cantava di una montagna, il

secondo diceva:

“Vedo la montagna come se

l’avessimo davanti”.

Quando il primo suonava a

proposito di un ruscello, colui che

ascoltava prorompeva:

“Odo l’acqua che scorre!”.

Ma quello che ascoltava si

ammalò e morì.

Il primo amico tagliò le corde

della sua arpa e non suonò più.

 

Quando mi trovo in mezzo a dei volontari il primo sentimento che provo dentro di me è un sentimento di ammirazione, oltre che di simpatia.

I volontari sono una porzione di popolazione molto diversa in mezzo a tante persone furbe che passeggiano per le nostre strade: i volontari sono dei buoni.

In mezzo a tante persone che corrono, corrono e non trovano mai il tempo di fare tutto, per guadagnare, per accumulare denaro, i volontari sono delle persone che trovano il tempo per se stessi, e addirittura ne trovano anche da regalare ad altri.

In mezzo a tante persone che mostrano un viso ingrugnito, triste, ansioso ed angosciato da tanti problemi, i volontari sono persone che sanno sorridere: segno di una pace dentro.

Questo non significa che non ci siano dei problemi nel cuore e nella vita di queste persone, ma esse sanno affrontare i problemi senza soccombere sotto l’angoscia di averli.  Tra tante persone che nella nostra società non sanno regalare niente, che non mollano sul prezzo, i volontari sono gente che non presenta il conto.

I volontari sono persone che non badano al prezzo e sanno regalare ciò che fanno.

I volontari non si sentono mai dei creditori, hanno e dimenticano.

Sanno fare qualche cosa gratuitamente, cosa che oggi più nessuno sa fare; nessuno più conosce la gratuità. I volontari sono persone che conservano tra di noi questo concetto e questo modo di vivere, questa realtà della nostra vita, la gratuità, una delle caratteristiche più significative dell’amore.

Sono persone che ci dicono che nella vita l’avere il possedere, non  è tutto, e non è neanche la cosa più importante: la cosa più importante è l’essere il ciò che si è,  il chi si è il come si è.

Per questo in un gruppo di volontari il primo sentimento che provo dentro di me è un sentimento di apprezzamento, di ammirazione, di stima e simpatia.

Io penso che voi, andando avanti nel vostro servizio, vi poniate una domanda che mette in discussione sia il lavoro che fate che la vostra identità.

 Io penso che tante volte vi domanderete come tante volte me lo domando io a riguardo di me stesso: “Ma che cosa faccio io per le persone, a che cosa servo, che cosa offro, che cosa do io alle persone?”

Ed è una domanda alla quale dobbiamo dare una risposta positiva perché, riguarda sostanzialmente la percezione che noi abbiamo di noi stessi. E noi, nella vita, da quando siamo bambini a quando moriamo, abbiamo un enorme bisogno di portare, di avere una percezione positiva di noi stessi,  di chi siamo e di che cosa facciamo,  per avere di noi una giusta e congrua autostima, una congrua  autoconsiderazione, che io ritengo sotto  il profilo psicologico o psicoterapeutico la colonna vertebrale di una persona.

Io faccio anche psicoterapia e vi confido che tante volte, trovandomi di fronte a dei pazienti – naturalmente da uno psicologo va soltanto chi soffre, la gente felice non va dallo psicologo o da un psicoterapeuta – mi sono trovato a svolgere questo compito di ricostruire una giusta autostima nell’uomo o nella donna che mi sta a fianco perché da una persona che non si apprezza, che si butta giù e che pensa di non valere niente, e non le si può chiedere niente, a 6 anni, come a 20 o come a 40.

E’ necessario quindi che quando noi ci domandiamo “che cosa faccio io in concreto, che cosa offro, che osa dò alla gente?”, noi sappiamo dare una risposta positiva e appropriata.

E la risposta, sinteticamente, può essere questa: “Offro una presenza”; e se non ci si vede, non importa, ci si ascolta; l’udito è un ottimo canale comunicativo e crea vicinanza come lo sguardo.

Quando saluto un amico dall’altra parte della strada, i nostri sguardi si incontrano; lo posso salutare anche con un gesto perché abbiamo creato una presenza reciproca.

La presenza è essere nel campo di coscienza di un’altra persona.

La presenza è entrare o accogliere l’altra persona nel campo della propria coscienza, in senso psicologico; questo evidentemente può avvenire in un incontro facciale, in cui tuti i canali comunicativi sono aperti e quindi comunicanti: lo sguardo, l’udito, il contatto, la vicinanza, la parola, il dialogo.

Quando nel vostro servizio, c’è soltanto il canale uditivo e verbale aperto, c’è comunque la presenza.

Ecco, io vengo ad offrire una presenza, una presenza che non è di carattere specificamente “professionale”; io non debbo risolvere i problemi, non debbo neanche dare consigli;  al massimo io posso aiutare il soggetto che è in difficoltà a chiarire il problema, facendo appello alla sua testa, ragionando e ascoltando il suo cuore, cioè i suoi sentimenti, ma non tutti i suoi sentimenti, perché, soltanto una parte dei nostri sentimenti parlano bene, e sono i sentimenti buoni.

I sentimenti cattivi non danno mai un buon consiglio, perché i sentimenti cattivi ci fanno solo soffrire.

Quali sono i sentimenti cattivi: la depressione, lo scoraggiamento, la mancanza di speranza appunto, peggio ancora, più ancora, il sentimento di rancore, il desiderio di vendicarmi; questi sentimenti sono cattivi e non ci danno mai dei consigli buoni.

Un sentimento cattivo non può dare un coniglio buono e, anche se può sembrare che appaghi, lì per lì ma, a lungo andare, è più il male che io ho fatto a me stesso con le mie stesse mani, con il sapore di vendetta, il sapore gustoso che io ho provato prendendomi una vendetta.

Non bisogna mai avere paura di essere buoni, non bisogna mai avere paura di essere buoni per primi e non bisogna mai pentirsi di essere stati buoni o di essere stati dei miti.

La bontà non ha nulla a che fare con la banalità, per fortuna; per nostra fortuna si può essere miti pur essendo forti, e si può essere forti senza essere violenti.

Noi comunque siamo chiamati, diciamo così, siamo destinati, ci siamo destinati ad offrire una presenza diversa da quelle specificamente professionali; noi, ascoltando la persona parlare al telefono, non siamo dei medici, non siamo dei geometri, non siamo degli avvocati, non siamo dei notai, ma offriamo una presenza umana ed una vicinanza.

Accogliamo la sua angoscia, accogliamo soprattutto il suo bisogno di incontrare qualcuno, il suo bisogno di parlare.

Si va sulla luna, si costruiscono navi spaziali, si fanno scoperte ogni giorno in tutte le discipline scientifiche  si scoprono tante medicine nuove ma, il bisogno fondamentale della persona umana, di tutte le persone umane noi comprese, rimane sempre il medesimo, quello di trovare qualcuno con cui parlare, quello di trovare qualcuno  con cui stare bene insieme.

E qui entra in gioco un altro grande problema, di noi tutti, quello di dialogare.

Dialogare è un atto solo apparentemente facile, in realtà è molto difficile.

Si sa che è facile parlare: si respirano parole come l’aria, sin dalla nascita.  Abbiamo imparato a parlare con estrema facilità, tant’è vero che gli psicologi e i neurologi pensano che nella nostra mente sia presente un determinato centro che presiede all’apprendimento della lingua, o di più lingue, innanzitutto della nostra lingua natia.

Nessuno infatti riesce a comprendere come un bambino che non sa niente di grammatica riesca a parlate in modo grammaticalmente corretto; un bambino che non sa definire il verbo, che non sa distinguere il congiuntivo dal condizionale, riesca a maneggiare perfettamente il congiuntivo, il condizionale, il futuro e il passato. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che nella nostra mente ci sia nelle zone che presiedono all’apprendimento un nucleo nervo-cerebrale che presiede proprio all’apprendimento di una lingua.

La vita di tutti noi un matrimonio con le parole, noi viviamo con le parole, tutta la vita.  Ci accompagnano dal mattino alla sera, come il respiro.  Basta aprire bocca e parole e frasi rotolano fuori: ma attenzione! Parole nel mondo ce ne sono tante, dialogo, ce n’è poco. Per questo dicevo che il dialogare è un atto solo apparentemente facile, ma in realtà molto difficile.

Parlare correttamente è difficile perché non debbo giudicare, non debbo valutare, non debbo condannare; debbo invece avere pazienza, non debbo aver paura del diverso, non debbo avere paura di un diverso modo di pensare, anzi debbo saper accettare il diverso modo di pensare, di ragionare, di parlare, di discorrere.

Debbo accettare l’invadente, l’intollerante, il dogmatico, il severo, lo scrupoloso, l’ossessivo, e tacere, tacere, tacere.  Debbo soprattutto evitare le parole cattive.

Ci sono parole buone che creano comunione ed unione, parole che, come direbbe Freud, nascono dall’eros e dall’amore; e ci sono parole che dividono, che lacerano, che allontanano, che tappano la bocca, a chi parla con me, e che chiudono la comunicazione, a volte per sempre, e distruggono, e fanno soffrire.

Se esaminiamo il nostro passato, sfogliando brevemente l’album delle nostre memorie, tutti noi ricordiamo delle frasi che ci hanno fatto del male o che hanno fatto del male.

Dopo certe frasi, non rimane più niente da dire, dopo certe parole cattive, pronunciate, per esempio in famiglia, non c’è altro che il silenzio, non rimangono più parole da dire.

Io ho incontrato persone distrutte dalle parole, e ha incontrato persone distrutte, rifatte, ricreate, dalle parole, ricostruite dalle parole.

C’è una parola che è medicina e noi siamo chiamati a pronunciare, a conoscere, a far rinascere dentro di noi queste parole in modo da conoscerle, da possederle da maneggiare con disinvoltura; parole che sono medicina, parole che guariscono.

Io ho accumulato queste mie esperienze facendo per tanti anni il cappellano – lo faccio tuttora – ascoltando gli ammalati e facendo psicoterapia; ho raccolto queste esperienze in un libro “Dalle parole al dialogo” e l’ultimo capitolo l’ho proprio indicato così “C’è una parola che è medicina”.

Io vi auguro che tutti voi andiate in cerca, dentro di voi, dentro il vostro cuore, di questa parola che è medicina e che non si può n’è comprare n’è vendere ma soltanto scoprire dentro di noi, modificando i nostri sentimenti.

Le parole nascono per minima parte, almeno nell’ambito del lavoro che facciamo, dalle nostre idee, da ciò che sappiamo, da ciò che abbiamo imparato; per una percentuale altissima, invece, le parole buone nascono dai nostri sentimenti soprattutto dall’amore.

L’amore fa trovare le parole giuste e, le parole giuste, le buone parole, fanno nascere l’amore. Questa è una esperienza che abbiamo tutti, l’amore che ci insegna e che ci fa trovare le parole buone; abbiamo anche constatato tante volte che sono proprio le parole buone che creno amore, che fanno nascere amore ed amicizia.

Nel dialogo ci sono due posizioni quella del comunicare e dell’ascoltare, c’è chi parla e chi ascolta; il dialogo è fatto di persone che parlano ed ascoltano reciprocamente un po’ ciascuno.

Generalmente quando ci incontriamo tra amici, in una riunione come questa, prima della riunione, o mangiamo una pizza, o siamo in casa di amici, lo spazio e il tempo comunicativo viene di solito diviso in atti uguali.

Quando siamo in due, un po’ parli tu e io ascolto, e poi un po’ parlo io e tu ascolti, e si va avanti così, godendo della gioia di stare insieme.

Quando siamo di più, tre, quattro, cinque, sei, pressappoco allo stesso modo il tempo e lo spazio comunicativo vengono divisi in parti uguali, tre parti, quattro cinque parti; metaforicamente parlando, ciascuno preleva a turno la sua quota di tempo per parlare e gli altri ascoltano.

Quando però il nostro dialogo e la nostra presenza l’abbiamo scelta – voi ed io – come servizio, come regalo, come lavoro, allora le cose non stanno più così. Infatti, sapendo che il bisogno fondamentale di chi mi ha telefonato o del malato che passo a salutare nel pomeriggio, è quello di parlare, debbo lasciare a lui il tempo più ampio possibile per parlare, e io debbo pormi nell’atteggiamento di ascolto.

In tanti anni passati in ospedale, tra i malati, una delle cose che ho imparato meglio e che ritengo una delle scoperte più preziose fatte nella mia vita è questa: uno dei bisogni più profondi della persona umana è quello di parlare, parlare, parlare, e di dire, dire, dire, qualunque cosa, pur di dire.

Questo si verifica soprattutto quando si ha un problema che crea angoscia quando si è malati.  La malattia è la spoliazione della persona, perché fa cadere tutte le sicurezze; il più povero tra tutti i poveri è il malato, perché dipende in tutto dagli altri, tante volte addirittura nel bisogno di prendere un bicchiere.

Ebbene, specialmente quando si ha un problema, o quando si è malati, il bisogno più profondo della persona è quello di parlare, e di parlare di sé.

E qui il discorso si fa difficile perché per consentire a lui di parlare, io debbo saper ascoltare.

E ascoltare – credetemi ed avrete modo di constatarlo – è faticosissimo.

Ascoltare nel modo giusto è difficilissimo; perché ci sono tanti modi di ascoltare. Anche il curioso ascolta, anche il giudice ascolta, anche l’insegnante ascolta, anche il professore che sta esaminando o interrogando ascolta, anche il vigile mentre scriva la multa ascolta.

Ma come ascolta?

Anche il moralista ascolta, anche il confessore ascolta, anche l’autoritario ascolta; ma

non è questo l’ascolto che dobbiamo offrire; il nostro deve essere un ascolto comprensivo, empatico, di perone che hanno scelto di accogliere l’angoscia, di farsi almeno per un po’ di tempo contenitori dell’angoscia, del problema, per cercare di viverlo insieme per un po’ di tempo.

C’è chi crede che ascoltare sia facile perché, tutto considerato, ascoltare è un atteggiamento passivo, che non costa niente.  Addirittura un’ammalata, dopo che una sera ero stato ad ascoltarla in camera per oltre mezz’ora, al termine mi saluta così:

“E vada pure reverendo perché, dopo tutto, lei non ha fatto nient’altro che ascoltare”.

Probabilmente non si rendeva conto che dopo che io l’avevo ascoltata per mezz’ora, guardandola attentamente, la sua angoscia o meglio il livello della sua angoscia, si era attenuato.

Perché se ha parlato per mezz’ora di seguito è segno che il livello di angoscia era molto elevato; non sempre queste cose si percepiscono.

Chi pensa che ascoltare sia facile confonde l’ascoltare con il sentire; le due cose sono diverse, totalmente diverse. E’ molto diverso dire: “Ho sentito che eri di là che suonavi la chitarra”, e dire:” ti ho ascoltata a suonare la chitarra”; è tutto diverso.

“Ho sentito che hanno bussato alla porta”, oppure, ho ascoltato, c’è qualcuno che ha bussato”. E’ la stessa differenza esistente tra il vedere, “ho visto che hai piantato dei fiori”, e il guardare, “ho guardato i fiori che hai piantato”.

Il sentire è un fatto puramente fisiologico, basta avere l’apparato uditivo integro e noi sentiamo, addirittura noi possiamo sentire facendo altro.  Quanti sono i giovani che studiano anche sentendo come sottofondo un brano di musica!

Addirittura, si può sentire e fare altro e si possono sentire tante cose insieme, ma non si può ascoltare e fare un’altra cosa nello stesso tempo.

Perché?  Perché ascoltare è un fatto di interiorità, è un fatto di risonanza emotiva, un fatto che coinvolge, cha esige la massima presenza senziente, che richiede attenzione e concentrazione.

Io non posso fare nient’altro mentre ascolto, perché in quell’atto dell’ascolto, l mio ascolto, c’è tutto e stesso, è un fatto di interiorità, di risonanza interiore.

Ascoltare poi è faticosissimo per tanti altri motivi, per l’attenzione e la concentrazione mentale che richiede, per l’esposizione del suo contenuto, qualunque sia, dal più impegnativo al meno impegnativo.

E’ faticosissimo ascoltare per il coinvolgimento empatico che io offro,  per la compartecipazione che io offro; io vengo disturbato nella mia interiorità, nella mia emotività; non  posso rimanere indifferente mentre vedo, ad esempio, il mio paziente o la mia paziente piangere, o mentre ascolto la persona che piange  dall’altra parte del filo del telefono.

Ma ascoltare, voi lo constaterete con la vostra esperienza, con il vostro lavoro, è faticosissimo soprattutto per un motivo: perché, mentre ascolto, io debbo far tacere quella che viene chiamata la mia comunicazione “intrapsichica”.

Ad un certo punto, infatti, anch’io vorrei parlare un po’ di me, del mio passato, oppure di una mia esperienza, che l’esposizione fatta da questa persona desta dentro di me, richiamandola alla memoria, e ridestando la mia emotività, in quanto si tratta di un frammento del mio vissuto.

Mentre questa persona mi espone la sua sofferenza dovuta, ad esempio, alla presenza in casa di un malato, forse io penso che anch’io in casa mia ho un malato, ho un amico malato, ho un familiare malato, e mi verrebbe vogli di dire: “Guardi signora anch’io sto passando un momento così”; ma non lo debbo dire. Non debbo parlare di me, perché alla persona che mi sta esponendo il suo problema i miei problemi non interessano per niente, anzi, se io la interrompo per parlare di me, non soltanto sono professionalmente scorretto, ma sono anche crudele, perché mi accaparro quel tempo comunicativo che invece, per principio, ho destinato al servizio.

Bisogna dire che nessuno ci ha insegnato ad ascoltare; questo è un grande guaio nella nostra vita.

Fra i quattro momenti che riguardano la comunicazione verbale: scrivere, leggere, parlare ed ascoltare, la scuola ci ha insegnato i primi tre, ma non il quarto; ci ha insegnato a scrivere, a leggere, a parlare, ma non ad ascoltare.

Diciamolo francamente: mai nessuno ci ha insegnato ad ascoltare; questo lo dico anch’io come sacerdote.

Quante lezioni, quante prediche, quante meditazioni, quante esortazioni!

Ma io non ricordo che un sacerdote o un insegnante, né alle scuole inferiori, né in quelle superiori, né all’università, né in seminario o nelle pubbliche abbia tenuto una lezione sull’ascoltare.  Ci hanno insegnato di tutto; a leggere e a scrivere, a cantare, ballare, fischiare, e non so che altro, magari ci hanno insegnato anche a insegnare;  ma io on ricordo che qualcuno ci abbia tenuto una lezione sull’ascoltare e ci abbia detto che offrire ascolto è un geto raffinato di amore.

E così che cosa si è verificato dentro di noi?

Si verificata una distorsione, una perversione: noi siamo andati convincendoci sempre di più che per far bella figura è necessario saper palare, non saper ascoltare, che per venderci bene dobbiamo saper parlare, dobbiamo andare a scuola di eloquenza, a scuola di relazioni pubbliche, dove non ci insegnano ad ascoltare, m soltanto a venderci bene e con profitto.

Siamo andati convincendoci che per fare carriera è indispensabile saper parlare.

Siamo andati convincendoci sempre di più, in una parola, che ciò che abbiamo da dire noi è sempre più importante, più istruttivo più divertente di quello che hanno da dire gli altri.

Questa perversione, per altro, è un po’ tipica della nostra cultura occidentale: su questo punto la cultura occidentale, la cosiddetta saggezza occidentale, dista e si differenzia mille miglia dalla saggezza orientale.

Una caratteristica importante della nostra cultura occidentale è questa: che il sapere è il centro dell’esistere umano, il sapere, il logos, è il centro della saggezza e della cultura, inoltre si è verificata questa convinzione; chi possiede il sapere deve anche saper parlare, non è concepibile, infatti, un sapere che non sia comunicato, offerto e venduto.  Pertanto, chi possiede il logos deve anche saper comunicare il logos, deve saper parlare.

Si è dimenticato però che l’incontro avviene in una situazione dialogica, dove c’è una persona che parla e ve n’è un’altra che ascolta.

In questa filosofia, in questa cultura “logos – centrica”, l’ascoltante e il conseguente atteggiamento dell’ascoltatore è stato dimenticato.

Tant’è vero che non si è mai scritto un libro sull’atteggiamento dell’ascolto corretto.

Non è il caso di colpevolizzare o di criminalizzare per questo la società di oggi, piuttosto è da rivedere questo concetto di cultura tipicamente occidentale che portiamo dentro di noi.

Con che cosa si ascolta?

Si ascolta con tutta la persona, questo lo dico molto in fretta; cercando di tener presente anche la vostra vita che non si svolge, non si esaurisce soltanto nel servizio al Telefono Amico.

Si ascolta con tutta la persona, con lo sguardo, con il volto, con la posizione del corpo, con le mani.   Se faccio altro mentre ascolto il mio bambino che, appena tornato da scuola – fa la seconda o terza elementare – mi vuole raccontare come è andata la mattinata non gli do la sensazione che ciò che lui dice, e meno ancora lui, sia importante per me.

Si ascolta con tutta la persona, ed in modo particolare – qui esulo un momento dal servizio di Telefono Amico – si ascolta soprattutto con lo sguardo.

Guardare sempre le persone negli occhi, amabilmente, uno sguardo paritario, comprensivo, vorrei dire buono, incoraggiante, non lo sguardo del padrone, e neanche quello del servo, dello schiavo, non lo sguardo del leone, ma neanche quello della pecora, uno sguardo tra uguali, incoraggiante, che non condanna, che non valuta, che non giudica, ma che accoglie ed abbraccia.  Accogliere dentro di me non significa automaticamente condividere il sentimento dell’altro che magari non approvo; per esempio la volontà di fare vendetta, di fare una ripicca; io non l’approvo, però taccio, ed ascolto, e comprendo.

Vi faccio una confidenza: volete conoscere quale clima regna in una famiglia dove magari voi entrate per la prima volta e non la conoscete abbastanza?  La famiglia di un vostro amico, di una vostra amica, ad esempio.  Volete conoscere qual è l’atmosfera emotiva che circola tra i componenti di quella famiglia?   Ebbene! Osservate come si guardano, osservate il tono con cui si parlano, i sentimenti con i quali si parlano, ma soprattutto osservate come si guardano.

Guardate, vi faccio una battuta: io ho scoperto che si può modificare la qualità della nostra vita il mondo delle nostre reazioni interpersonali, umane, modificando il nostro modo di guardarci.

Con uno sguardo noi possiamo dire tutto: uno sguardo può distruggere una persona, lo sguardo di un insegnante, per esempio, può distruggere un allievo, toglierli la stima, quel residuo di stima e di fiducia che porta dentro di sé.

Al contrario quella stima, quella fiducia, gliela posso rifondare e restituirlo all’entusiasmo, alla speranza.

Con lo sguardo posso umiliare una persona o posso incoraggiarla, posso dirle con lo sguardo che da lei non mi aspetto più niente, dirle che da lei mi aspetto ancora tanto, più di quanto mi ha dato finora.  Con lo sguardo posso dire ad una persona che per me non è niente, e posso dirle invece che per me è tutto, il tutto della vita, naturalmente e potrei fare di lui il tutto della mia vita.

Tante volte, il destino di un giovane dipende da uno sguardo diverso, a volta il dono più prezioso che si può fare ad uno studente, ad un giovane, ad un bambino, è di regalargli uno sguardo diverso, di inventare uno sguardo diverso per lui.

Il destino di un’amicizia, il destino di una coppia, il destino di una famiglia può dipendere in gran parte da questo sguardo diverso.

Ascoltare vuole ancora dire tacere, lasciar parlare, lasciar palare.

Se poi riprendo io a parlare è perché, la paura di un silenzio si fa lunga, e quella pausa, quella ripresa della mia frase, la interrompo immediatamente se dall’altra parte lui riprede a parlare.

E soprattutto ascoltare significa tenere concentrata la comunicazione sul tutto, sul suo problema, sulla sua sofferenza, dimenticando la mia.

Proprio come esige il dovere dell’ospitalità. Ascoltare è offrire ospitalità.

Comportandomi così io gli faccio capire che in quell’incontro ho deciso che il protagonista sia lui, la persona che conta è lui, ed è quello che ha lui da dire che conta, non quello che ho da dire io.

Tutto questo evidentemente significa anche dimenticarsi, e qui è il vero problema, la grossa difficoltà di chi vuol regalare ascolto: riuscire a dimenticarsi.

E noi lo sappiamo tutti che dimenticarsi non è mai né spontaneo né facile.

La vita mi ha fatto un grande regalo – me ne ha fatti tanti regali! – ma il regalo più grande che mi ha fatto è stato di aver potuto studiare.

Ma vi confiderò che ciò che ho imparato al riguardo della vita, dell’animo umano, delle persone, dei sentimenti umani, non me l’hanno insegnato i libri ma me l’hanno insegnato i malati, ascoltandoli, ed ascoltandoli ancora.

D’accordo la teoria è necessaria, la carta stampata è necessaria per teorizzare esperienze e tradurre i fatti in concetti, e sono i concetti che in qualunque disciplina costituiscono il sapere, però se io non avessi ascoltato non avrei avuto fra le mani i dati esperienziali da catalogare, i dati sui quali riflettere, pensare, modificarmi.

E vi dico anche di più: son pieno di limiti e difetti, vero, lo so, però io penso di aver fatto un certo cammino in tanti anni di ospedale, un certo lavoro sul mio carattere, sul mio temperamento.   Ebbene, questo cammino penso di averlo fatto su ciò che ho ascoltato e appreso dai malati.

Se io non avessi imparato presto ad ascoltare, a riflettere e a meditare ( non scindete mai questi atti altrimenti il vostro ascolto rimane sterile, ma mettete sempre insieme l’ascoltare, il riflettere, il meditare, il confrontarsi su, il confrontarsi con,  e poi modificarsi migliorare, cambiare), se io non avessi imparato presto ad ascoltare non soltanto io non conoscerei al riguardo della vita e dell’animo umano e dei sentimenti umani ciò che conosco,  non soltanto non amerei l’uomo come lo amo oggi, non soltanto non avrei verso l’uomo l’atteggiamento comprensivo che ho oggi, ma non avrei il carattere che ho oggi,  non avrei il modo di reagire che ho oggi, non avrei  il modo di stare con gli altri che ho oggi.

L’ascoltare può diventare una grande scuola di vita, per me l’ascoltare l’ospedale, con la sua popolazione di persone che soffrono (e gran parte delle persone che vi telefoneranno saranno persone che soffrono, che hanno un problema), può diventare un’autentica scuola di vita.

Voi oggi siete animati da un grande desiderio, quello di fare qualcosa per gli altri, di offrire qualcosa per gli altri, sospinti dalla vostra grande bontà, dalla vostra sensibilità, dal vostro buon cuore.

Ma voi scoprirete che tutto questo va bene, va bene perché c’è una spinta interiore che vi tiene su, che ci tiene su, molto bene.

Ma voi scoprirete molto presto che ciò che riceverete, come l’ho scoperto io nel caso

mio, ciò che riceverete sarà molto maggiore di ciò che avete dato, di ciò che date.

Giuseppe Colombero, sacerdote, è stato per molti anni assistente religioso in un ospedale di Torino. Dottore in teologia, filosofia e psicologia, ha orientato la sua riflessione prevalentemente ai problemi della sofferenza e della salute interna, quella che dipende in gran parte da noi e alle domande della convivenza e del dialogo.

Risiede

 In una comunità di sacerdoti: Corso Benedetto Croce, 20, 10135 Torino.  Tra le sue opere pubblicate presso le Edizioni San Paolo segnaliamo: Dalle parole al dialogo, Aspetti psicologici della comunicazione interpersonale (2001) e Cammino di guarigione interiore, per abitare meglio se stessi. (1996)

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