Suore dell'Immacolata

Imitazione di Gesù

 

IMITAZIONE DI GESÙ

Il Figlio di Dio, nello scendere dal Cielo sulla terra per farsi uomo come noi, ebbe due disegni sublimi, due mire ammirevoli:

La prima, di redimere il genere umano, di liberarci dalla schiavitù del peccato e dall’inferno, di soddisfare per noi la divina giustizia e, chiudendo con gli infiniti Suoi meriti le porte dell’abisso, di aprirci quelle del Paradiso.

La seconda, di dare a tutti gli uomini un modello e un esemplare a cui uniformarsi nel proprio operare, per poter conservare nell’anima, viva e bella, quella divina immagine che la Sua mano creatrice le ha impresso. Questo prezioso modello, Gesù Cristo ce lo ha esibito in Se stesso, nella Sua adorabile persona, che giustamente viene detta dai Santi Padri: il Prototipo e l’Esemplare di ogni santità e perfezione.

L’uomo, che prima non aveva voluto mantenersi simile a Dio creatore, conservando intatta la sua originale innocenza, ora è necessario, se si vuol salvare, che si faccia simile a Dio-Redentore nel suo retto operare, così che nessuno potrà mai sperare di entrare in Cielo a godere con Cristo, se prima non avrà qui in terra imitato gli esempi e seguito le massime di Cristo.

«Quelli che ha predestinato – è S. Paolo che ce lo assicura – sono conformi all’immagine del Figlio Suo».

Perciò il Divin Salvatore, pochi istanti prima di andare a consumare la grande opera della umana riparazione, raccomandava caldamente ai Suoi discepoli, ed in loro persona a noi tutti, di non perdere mai di vista gli esempi che aveva dato loro in tutte le circostanze e di fare quello che avevano visto fare da Lui: «Vi ho dato l’esempio, affinché come ho fatto Io, così facciate anche voi».

Questa verità la intesero bene tutti i Santi che noi veneriamo sugli altari, e per questo, Essi godono ora della bella felicità del Cielo: Essi infatti, quando erano su questa terra, fedeli all’insegnamento di nostro Signore, si studiavano di copiarne in sé perfettamente gli esempi.

Se vogliamo assicurarci la gloria del Paradiso, dobbiamo da questo istante determinare di seguire Gesù Cristo e di camminare fedelmente e costantemente sulle tracce dei Suoi esempi.

Per vedere le principali virtù che dobbiamo imparare dal divino Maestro, ve Lo presenterò questa sera sotto tre punti di vista: nella Sua nascita, nella Sua vita e nella Sua morte. Questi tre punti, mentre delineano i tratti principali della Sua missione sulla terra, offrono oggetto di meditazione alla vostra stessa attenzione.

Rapito in estasi, l’evangelista S. Giovanni, ebbe un giorno una mirabile visione; vide in mezzo del Cielo una grande sala, intorno alla quale stavano ventiquattro seggi riccamente addobbati, su cui sedevano ventiquattro vegliardi, cioè gli Apostoli, i Patriarchi e altri Santi; in mezzo alla grande sala vi era un magnifico trono, sopra il quale sedeva Dio, l’Antico dei giorni, sfolgorante di luce e di maestà, in atto di giudicare il mondo. Dinanzi al Giudice Eterno si aprivano molti libri; tra questi se ne aprì uno che si chiama «Libro della vita» e, secondo ciò che era scritto in questo libro, veniva formulato il giudizio di Dio su ciascun uomo. Secondo S. Anselmo, questo libro è la vita di Cristo, poiché essendo Egli il nostro modello e l’esemplare di tutte le nostre azioni, il nostro giudizio consisterà nel confrontare vita con vita, la nostra vita con quella di Gesù.

Le opere conformi a quelle di Gesù saranno premiate, le opere a Lui contrarie saranno colpite da eterna maledizione.

Non vi pare, dunque, giusto che mettiamo ogni impegno, per studiare bene questo libro divino e uniformare interamente la nostra vita a quanto in esso sta scritto? Non vi pare ragionevole, anzi indispensabile, se vogliamo avere un giudizio favorevole, uniformare i nostri pensieri, i nostri affetti, le nostre azioni a quelle di Gesù Cristo?

Voi ben sapete che Gesù ci parla non solo con i precetti, ma anche con gli esempi. Guardatelo questo divino Maestro, osservateLo bene: tutta la Sua vita è uno specchio lucidissimo di umiltà, di povertà, di pazienza ammirabile.

Quando assunse la nostra umanità nel casto seno di una Vergine, si annichili – per usare la frase di S. Paolo – in modo da nascondere la Sua infinita grandezza sotto le spoglie di un povero peccatore; il Monarca del Cielo e della terra volle vivere la vita di tutti i figli di Adamo; come gli altri volle venire alla luce bambino; volle per Sua reggia una rustica stalla, per Suo trono una mangiatoia; volle rozzi, meschini pastori per Suoi cortigiani e volle trovarsi in estrema miseria, tanto da mendicare il fiato di due animali per riscaldarsi. In tal modo fece la Sua grande comparsa nel mondo l’immortale Re della gloria: FORMAM SERVI ACCIPIENS.

Fino all’età di trent’anni condusse una vita quasi oscura e sconosciuta nell’officina di un povero artigiano, occupandosi sempre in lavori bassi per procurarsi il quotidiano sostentamento e stando sempre sottomesso a Maria e Giuseppe.

Cominciata la Sua divina predicazione: quante ingiurie, quante contraddizioni, quante persecuzioni non dovette sopportare! Fu trattato da peccatore, da seduttore, da bestemmiatore, da indemoniato; fu tradito da un Suo discepolo e da lui consegnato nelle mani dei nemici; fu dichiarato reo della morte più infame; fu posposto al maggiore scellerato dei Suoi tempi e, in ultimo, fu giustiziato in mezzo a due ladroni. Quali abbassamenti ineffabili, quali umiliazioni infinite subì il Figlio di Dio!

Possiamo noi dire di aver camminato fin qui sulle tracce di questa santa umiltà, che ci lasciò il divino Maestro?

Confrontiamo un po’ la nostra vita con la vita di Lui: quale umiltà spirano le nostre parole, il nostro portamento, le nostre opere? Che acerbo rimprovero per la nostra superbia! Gesù umile nel pensare, nell’operare e noi gonfi di vanità: ne è prova che non sappiamo quasi aprir bocca senza che escano sentimenti di propria lode; vantando magari i cospicui natali, facendo talvolta da maestri agli altri, mostrando di saperne più di tutti, godiamo di essere stimati e tenuti in considerazione; parlando spesso di noi stessi, vorremmo che tutti imparassero dal nostro esempio.

Gesù fu umile nel sopportare disprezzi, ingiurie, affronti i più ignominiosi e noi: con quale sentimento di umiltà riceviamo una lieve riprovazione, un salutare avviso dai Superiori che teneramente ci amano?

Con quale umiltà riceviamo da Dio l’amaro calice della tribolazione, calice spesso dovuto ad una vita tiepida e dissipata?

Non è vero che ogni parola ci punge, ogni contrarietà ci abbatte, ogni piccolo scontro ci fa aggrottare le ciglia e spinge a sdegno il nostro cuore?

Dov’è l’imitazione di Gesù Cristo, tanto umiliato e disprezzato? A me pare che il nostro spirito sia tanto contrario allo spirito di Lui: non abbiamo saputo imparare neppure i primi rudimenti dell’insegnamento di Gesù, divino modello.

Gesù non solo fu umile ma fu anche povero, per liberare gli uomini da quell’insaziabile desiderio di possedere da cui spesso si lasciano tiranneggiare. Egli, sebbene fosse il padrone di tutto, perché creatore di tutto, tuttavia per nostro esempio, si spogliò di ogni cosa per avere, come Suo patrimonio, la povertà più squallida.

Quali mirabili lezioni da a noi questo Divino Maestro, di quel distacco che dobbiamo avere da questa misera terra!

Guardatelo appena nato a Betlemme. Nacque da Madre, purissima ma poverissima, sebbene discendente dalla casa reale di Davide; poco ruvido fieno; poca spregevole paglia sono tutto il bello e il meglio della Sua stanza; un umile tugurio destinato a rifugio degli animali è il palazzo in cui nacque.

Sempre, in tutta la vita, ebbe come indivisibile compagna la povertà e, sebbene fosse quel Dio che nutre gli uccelli dell’aria e veste i fiori del campo; quel Dio che a larga mano prodiga tutte le Sue ricchezze a favore delle Sue creature ingrate, Egli non ebbe dove posare il capo e morì nudo sulla croce.

Perché una povertà così estrema? Per insegnare a noi quel distacco che dobbiamo avere dai miseri beni di quaggiù; perché praticassimo quella santa povertà di spirito che Egli pone a base del cristianesimo, quando proclama beati i poveri di spirito, perché di essi soltanto è il Regno dei Cieli.

Se, conforme a questa massima del Vangelo, chiunque desideri ottenere il Paradiso, deve vivere distaccato da ogni bene della terra, non vi pare che questo obbligo incomba con più ragione su di noi, per la particolare condizione del nostro stato religioso? Non vi pare che noi, più di ogni altro cristiano, dobbiamo amare in modo speciale quella santa povertà che fu sempre la compagna indivisibile del nostro Esemplare?

Quale stima abbiamo noi di questa povertà di spirito? Non è vero che siamo molto solleciti per le cose di questo mondo, per procurarci in questa vita tutte le comodità e che, inoltre, siamo a queste così attaccati che ci rincresce quando ci manca qualche cosa, che noi crediamo necessaria, mentre in realtà potremmo farne a meno? Che desideriamo avere molte cose e non siamo contenti, se non quando ci pare di avere la stanza migliore di ogni altra? Che abbiamo vergogna di comparire poveri e desideriamo primeggiare e perderci in mille superfluità? Che vorremmo essere serviti come ricchi e ci rivolgiamo talvolta, a chi ci serve, con poca carità, anzi con prepotenza?

Non è vero che cerchiamo di schivare in ogni cosa i disagi e gli incomodi propri del nostro stato, e prorompiamo spesso in lamenti, in mormorazioni, in rimproveri per non avere le cose come le desideriamo?

Vi pare di imitare così Gesù povero, Gesù ignudo?

Vi pare di essere amanti di quella povertà che forma la maggiore ricchezza per la gloria del Cielo?

Memorabile è la preghiera che una volta rivolse a Dio il Re Salomone: «Non vogliate, non vogliate, o Signore, precipitarmi nella miseria e neppure vogliate darmi grandi ricchezze, ma io vi domando solo il necessario alla vita». Come non può dirsi ricco chi ha soltanto il necessario, così non può dirsi povero chi ha tutto il necessario.

Ma noi, anziché gradire che ci manchi, talvolta, quello di cui abbiamo bisogno per praticare la virtù della povertà, non sappiamo neppure soffrire in pace che ci manchi il superfluo. Come possiamo dire di imitare la povertà di Gesù Cristo?

Vediamo ora le grandi lezioni che Gesù ci dà di pazienza inarrivabile. E qui ritorno col pensiero sulle tracce santissime delle grandi penitenze, degli obbrobri e dei patimenti ineffabili che Egli sopportò sulla terra.

Contempliamo questo Uomo di dolori e di affanni, appeso all’infame patibolo della croce: chi può numerare le trafitture, le piaghe, gli strazi di quell’Umanità sacrosanta? Le tempie trapassate da acutis-sime spine, il volto contraffatto e imbrattato di sputi, il corpo immacolato squarciato in ogni parte a causa della sofferta flagellazione; le mani e i piedi traforati da crudelissimi chiodi; il costato aperto da una barbara lancia, sicché, dal capo ai piedi, non si ravvisa in Lui che una sola piaga, come dice il Profeta. NON EST IN EO SANITAS.

I patimenti, dunque, sono la grande eredità che ci lasciò Gesù Cristo, e quale scusa addurremmo per dispensarci dai disagi e dalle pene? Udite come dalla cattedra della croce, a noi parla il Divino Maestro: «Vi ho dato l’esempio, affinché come ho fatto Io, così anche voi facciate».

Perché, dunque, cerchi tanto di fuggire il patire e non vuol neppure sopportare in pace una parola frizzante, un motto pungente, un trattamento offensivo, un dolore di testa, un male qualunque?

Perché pretendere che la nostra ragione prevalga sempre; perché non voler mai cedere a nessuno; perché accontentare sempre i sensi?

Sappiamo che la mortificazione, tanto quella interna della volontà, quanto l’esterna dei sensi, è necessaria per domare le passioni, scontare le colpe commesse, evitare i difetti e acquistare le virtù. Non vediamo con i nostri stessi occhi che le persone immortificate sono le più dure di mente, le più dissipate di cuore, le più sgradite in comunità?

Non ricordiamo che il Regno dei Cieli patisce violenza e che colui che non si fa violenza col mortificare i suoi desideri, anche in piccole cose, non lo conseguirà mai?

Domandiamoci: quali mortificazioni facciamo noi per renderci simili a Gesù Cristo e ai Suoi veri discepoli? Quando Egli ci comanda di prendere sulle nostre spalle la Sua croce e di seguirLo, non ci comanda, è vero, che noi agonizziamo fino alla morte, come Egli fece per noi, ma vuole almeno che trattiamo il nostro corpo nella maniera che merita: con una giudiziosa diffidenza, evitando che si ribelli all’anima e ne patisca lo spirito; vuole che ci allontaniamo almeno dalla strada larga e spaziosa che porta alla perdizione; vuole che teniamo almeno a freno la gola, gli occhi, la lingua; che non mangiamo fuori pasto; vuole che osserviamo il dovuto silenzio per non fare le parti del diavolo, impedendo con le nostre chiacchiere il raccoglimento delle altre Consorelle.

Non dobbiamo aspettare che per questo la Superiora ci riprenda e ci corregga, perché anche se essa vede e tace, lo fa per il timore di non essere ubbidita. Per questo, il parlare inutilmente, però, non cesserà di essere un grande difetto dinanzi a Dio, come quello che contagia lo spirito di tutta la Comunità, e causa nelle anime una tale dissipazione che fa troppo dispiacere a chi vive seriamente la sua vocazione.

Gesù, finalmente, vuole che reprimiamo l’impazienza, i risentimenti, la collera; che sottomettiamo la nostra volontà a quella dei Superiori; che domiamo l’insaziabile concupiscenza e sopportiamo tutto per amore di Dio amorosissimo.

Come potremmo noi allontanarci da questa strada della croce, senza esporci al pericolo di perderci eternamente? Lo so che il senso e la nostra debole natura si ribellano al solo nome di patimenti, ma fissiamo Io sguardo in quel nostro divino Esemplare e poi replichiamo a noi stessi: quale opposizione c’è tra noi, vile cenere e fango e Lui, sommo Re della gloria!

Egli geme, piange, soffre; e noi non cercheremo altro che di appagare l’amor proprio e di accontentarci in tutto?

Egli innocente, santità per essenza, non vuol gustare che croci ed affanni; e noi, indegni peccatori, non cercheremo altro che di gustare le effimere delizie di questa misera terra? Forse che il servo è più del padrone? Se il benignissimo Gesù, che è nostro padrone, ha sopportato tanto fino a morire per noi crocifisso, nulla vorremmo noi soffrire per Lui, noi che siamo spregevoli Suoi servi?

No, mio adorabile Salvatore, non voglio vivere come feci finora così diverso da Voi; non voglio più che, mentre Voi sceglieste umiliazioni, povertà e patimenti, io ricerchi invece quello che può appagare la mia colpevole concupiscenza. Io so bene che non conseguirò mai la Vostra gloria nel Cielo, se prima non avrò cercato di imitarvi costantemente, qui in terra, sulla via delle umiliazioni profonde, del generoso distacco dalle cose terrene e dei patimenti ineffabili della Vostra croce.

Concedetemi, o Gesù, che per me non siano senza frutto i mirabili Vostri esempi, affinché continuando a camminare sulla via che pietosamente mi avete additato, io giunga finalmente un giorno a goderne i dolcissimi effetti nella eterna patria del Cielo. Amen.