Suore dell'Immacolata

Purgatorio 2

 

LE ANIME DEL PURGATORIO

(Seconda Istruzione)

«Miseremini mei, miseremini mei saltem vos, amici mei, quia manus Domini tetigit me».

(dal Libro di Giobbe)

Miserevole stato fu veramente quello del povero Giobbe! Derubato il poveretto di tutti i suoi averi, privato, da improvvisa morte, di tutta la sua numerosa figliolanza, ridotto all’estrema miseria e tormentato da un’ulcera purulenta che rendeva tutto il suo corpo una sola piaga, si vede costretto a passare i suoi giorni fuori casa, sopra un letamaio immondo, senza che nessuno gli si avvicini a dargli conforto: abbandonato da tutti nella sua angoscia e nel suo dolore.

La stessa moglie, anziché fasciargli con carità le piaghe e mitigargli, almeno con tenera compassione, i suoi affanni, lo va amareggiando con pungenti parole. Quale deplorevole stato! Chi non avrebbe avuto pietà di questo infelicissimo uomo? Sì, anche il poverino si lusingava, quasi era sicuro di essere esaudito, e rivolgeva il pensiero ai cari amici scongiurandoli tutti, con quanto aveva di forza e di vigore, ad avere almeno essi pietà della sua sciagura, perché si era aggravata sopra di lui la mano del Signore.

Ma chi non vede, miei carissimi, nella sventura del paziente Giobbe, adombrata al vivo quella delle anime del purgatorio? Anch’esse, poverine, spogliate di quanto avevano di più caro in questo mondo, prive di tutto, colpite da atrocissime pene, dimenticate spesso dagli stessi loro parenti, si trovano là nel purgatorio sotto i rigori della divina giustizia che, richiedendo da loro la debita soddisfazione per tutte le colpe commesse nella loro vita e che non scontarono completamente con opere di penitenza prima di morire, aggrava sopra di loro la terribile sua mano e fa loro sentire i più gravi tormenti. Quindi, anch’esse le sfortunate, rivolgendosi a noi, loro congiunti, a noi, loro amici, ci vanno gridando, con pianti, le stesse parole di Giobbe: «Pietà, pietà di noi, almeno voi, nostri amici, perché la mano del Signore si è aggravata su di noi». Queste flebili voci non ci muoveranno a pietà di quelle anime infelici? Non cercheremo con impegno di mitigare con i nostri suffragi i loro mali? Lasciate che io, prendendo oggi le parti di quelle anime sante, venga esponendo i loro tormenti e voi vedrete quanto le poverine siano degne di compassione e meritevoli di soccorso nei loro affanni.

In due modi il Signore punisce, con la sua terribile giustizia, le anime del purgatorio: le tormenta, cioè, con la pena del senso e con la pena del danno: due pene terribilissime, una più acerba dell’altra.

Con la pena del senso vuole che quelle infelici paghino, fino all’ultimo, l’amore disordinato che hanno portato alle creature e alle cose sensibili e caduche di questa terra, il piacere sregolato che di esse si presero e l’eccessivo attaccamento che ebbero alle stesse.

Con la pena del danno, vuole che scontino il poco amore che in questa vita portarono a Lui, unico e vero Bene, la poca stima e la noncuranza in cui tennero i beni eterni e, quindi, il poco o nessun amore del paradiso.

Con l’una e con l’altra Dio vuole che soddisfino, a rigor di termini, la sua lesa Maestà e la divina giustizia per tutto ciò che ancora le devono o per le loro colpe veniali, o per i residui di pena temporale dovuta ai loro gravi peccati, dei quali ottennero il perdono ma non ne fecero, in vita, la debita penitenza.

Parlando prima della pena del senso, richiamate al pensiero quanto di più crudele, di più barbaro hanno patito i martiri sotto i più inumani tiranni: stirati sugli aculei, bruciati vivi in bronzi di fuoco, scarnificati da pettini e uncini di ferro, ecc. Ricordate tutti i mali, le angosce, le tribolazioni che hanno sofferto gli uomini più infelici del mondo quali il freddo, il caldo, la fame, la sete, le prigionie, gli affanni, le tristezze e gli scoraggia-menti. Richiamate ancora alla memoria quanto si soffre negli ospedali da cancerosi, febbricitanti, assiderati, affetti insomma da mali di ogni genere.

Questi grandi mali, anche tutti insieme, sono un nulla in paragone della pena del senso che soffrono le anime del purgatorio. In quel tenebrosissimo carcere, esse sono tormentate nei sensi da dolori più acerbi dei sopraddetti. Se noi vogliamo credere all’unanime consenso dei santi Padri, la più lunga pena e più crudele che si possa soffrire in questo mondo, non uguaglia la minima di quel luogo terribilissimo.

In verità, o miei cari, è una somma calamità, una crudelissima pena quella di dover stare rinchiuse in un profondissimo carcere, ove domina continuamente la notte, si scuote il suolo con tremiti spaventosi e le caverne risuonano di gemiti. Questa, appunto, è l’immagine, benché leggera, del purgatorio.

In questo luogo tormentoso sono relegate, e forse per lungo tempo, le anime dei nostri padri, delle nostre madri, dei fratelli, delle care nostre sorelle, dei nostri amici. Avremo noi il coraggio di lasciarli in un luogo di così grande dolore più a lungo? Aggiungete che, laggiù, le anime sono sommerse nel fuoco, un fuoco immensamente più tormentoso del nostro, in tutto simile a quello dell’inferno e differente solo perché quello è eterno e quello del purgatorio temporale. In questo fuoco il Signore tormenta quelle anime benedette non brevemente e come di passaggio, come alcuni credono, ma molto posatamente e molto lungamente. Che acerbissimi dolori devono essere quelli dei poveri morti nel purgatorio! Quanto intensi, quanto intimi, quanto vivi!

Come hanno ragione di rivolgersi a noi per implorare pietà! Chi sarà, tra noi, di cuore così duro che non si senta muovere a compassione per quelle anime sventurate e non corra, con abbondanti e opportuni suffragi, ad estinguere il loro ardore o, almeno, a mitigarlo?

Il modo più crudele e più acerbo con cui la mano dell’Onnipotente colpisce terribilmente le anime del purgatorio è la pena del danno che le tiene lontane da Lui, sommo ed infinito Bene, meta dei loro sospiri, caro Sposo già loro promesso.

Quando in Egitto si presentò dinanzi a Giuseppe, viceré di quel Paese, suo fratello Beniamino, dice il Sacro testo che Giuseppe, fissatolo bene in volto e riconosciutolo, dal profondo del cuore sospirò, pianse e si commosse profondamente per suo fratello.

Ma come ciò, domando io, fedeli miei, se Giuseppe stesso fu colui che comandò che là venisse Beniamino, se egli stesso lo volle vicino a sé come l’oggetto più tenero del suo amore? Perché poi piangere alla sua presenza? Non vi stupite, dice S. Ambrogio, che è facile intenderne la ragione. Nella pubblica sala dell’udienza, dove gli è comparso davanti l’amato Beniamino, Giuseppe non poteva abbracciarlo per la maestosità di viceré che egli doveva conservare e il dovere, solo per poco, differire lo sfogo dei suoi affetti, l’aver cioè vicino il tanto desiderato fratello e non poterlo godere, era per lui un crudele martirio.

Non altrimenti avviene nel purgatorio: le anime benedette amano teneramente Iddio, centro di ogni bontà e di ogni bellezza e a Lui tendono come a loro caro Padre. Dio stesso, sommo e vero bene, le attrae con tutta la forza della sua amabilità e dolcezza, tuttavia non possono a lui volarsene, perché macchiate dalle loro colpe. Che gemiti devono emettere dal cuore le sconsolate! Sono straziate, perché è loro differita la libertà di abbracciare Colui che desiderano. Poverine!

Esse sono portate a Dio per istinto di natura, per impeto d’amore e invece sono sempre legate ai loro ceppi, non possono mai fare un passo, né stendere una mano per abbracciarlo! Sospirano sempre di contemplare la bella faccia di quel Signore che solo può contentare le loro brame e non vedono mai squarciarsi quel velo che gliela nasconde! Anelano slanciarsi verso il paradiso, e non possono mai raggiungerlo.

Finché noi siamo in questo mondo, lo stare lontani da Dio non ci è di gran pena, perché qui, distratti da mille oggetti terreni, non giungiamo a conoscere che cosa voglia dire possedere quel sommo Bene, anche perché qui, in questo mondo, quantunque il peccato ci privi di Dio e da Lui ci allontani, lascia però che continuiamo a godere gli effetti della divina bontà nelle creature; ma sciolti appena dai lacci del corpo e liberi da sensi, conoscendo allora chiaramente Dio, come principio e fonte di ogni nostra felicità, a Lui tendiamo con tutta la forza del nostro spirito.

Se, per grave disavventura, alcuni di noi fossimo macchiati da colpa e, indegni della divina presenza, fossimo costretti a rimanerne lontani, proveremmo così grave e terribile tormento, che ogni altra pena è nulla in confronto di questa. Se è così, chi può ridire gli orribili spasimi che provano le anime del purgatorio? Esse, poverette, non hanno più corpo che le aggravi, non hanno oggetti terreni che le divertano, non più mondo che le attragga, ma in Dio sono rivolte le loro brame; queste anime anelano ardentissimamente a Lui, bramano di essergli amiche, di essere prossime a goderlo, di presto raggiungerlo. Figuratevi un febbricitante che, arso dalla sete, abbia vicino una fontana di limpida acqua, la senta scorrere, la tocchi quasi con la mano, ma non ne possa avere neppure un sorso per rinfrescarsi le labbra: non è vero che la sua sete diventa, per questo, più ardente e più afflittiva?

Se ad un naufrago, battuto dalle onde, fosse dato, per avventura, di poter avere una tavola tra le mani e su quella dirigersi verso il lido vicino quando, ormai prossimo alla meta e sopraffatto dall’impeto delle onde, si vedesse ributtato e sommerso nuovamente nel mare, non sarebbe al poverino assai più doloroso il naufragio?

Io penso che gli Angeli Custodi delle anime purganti scendano, di tanto in tanto, a visitare quel carcere per consolare le anime, ma che consolazione possono avere, le poverine, lontane da Dio?

Quando l’arcangelo S. Raffaele cercava di consolare il vecchio Tobia, afflitto per la sua cecità, quel sant’uomo, con tutta la semplicità del cuore, gli rispose: «Quale allegrezza, o mio buon angelo, posso mai provare fra gli orrori di queste tenebre senza che mai mi sia dato di fissare lo sguardo nella bella luce del cielo?». Lo stesso mi sembra che risponda ciascuna delle anime purganti al suo angelo custode che si affaccia a quel carcere per consolarla: «Quale allegrezza vuoi tu, o angelo di Dio, che io senta in questo luogo tristissimo, mentre non mi è dato di poterti essere compagno in paradiso, di possedere una volta, insieme a te, i beni eterni e stringermi col mio Dio?». Qui la misera maggiormente si conturba, si agita e si accrescono i suoi dolori.

Se è così, non vi pare, fedeli miei, che abbiano le poverine tutta la ragione di rivolgersi a noi per chiederci aiuti? «Miseremini mei, saltem vos, amici mei». Non vi pare che meritino da noi ogni compassione, ogni soccorso? Sì, che lo meritano, tanto più che da sole non possono in alcun modo trovare la maniera di aiutarsi. Esse, come dice il Vangelo, hanno le mani e i piedi legati, sono cioè impotenti a procurarsi da se stesse il benché minimo sollievo. Noi solo possiamo mitigare i loro affanni, estinguere la loro sete, asciugare le loro lacrime; noi solo possiamo consolarle, spezzando le loro catene e far sì che volino subito al possesso dei beni eterni, o, almeno, alleggerire i loro dolori, affinché non sentano tanto la loro prigionia. Con una sola Santa Messa, a cui partecipiamo devotamente o facciamo celebrare in loro suffragio, con una visita ad una chiesa, con un’indulgenza che si acquisti in loro favore, con la recita di un Rosario, con il dire devotamente le orazioni del mattino e della sera, col fare per loro una S. Comunione, col sopportare pazientemente, in loro suffragio, le traversie che incontriamo nella giornata, noi possiamo pagare il riscatto di qualcuna di quelle anime benedette.

E perché dunque non farlo? Vorremmo noi che le misere rimangano fra tante pene anziché mandarle, potendolo con così poco, a godere in cielo tanta gloria? Non sarebbe questo un meritarci un rigoroso divino giudizio nel giorno della nostra morte, essendo scritto nel Vangelo che un giudizio senza misericordia sarà fatto da Dio a colui che in vita sua non avrà usato misericordia? Non vogliamo, come ci raccomanda nell’Ecclesiastico lo Spirito Santo, non vogliamo negar soccorso alle povere anime dei nostri morti. Esse ce lo domandano con le labbra aride per l’arsura: «Miseremini mei… quia manus Domini tetigit me».

Sorgete adunque, vi dirò con S. Bernardo, sorgete in loro aiuto; dichiariamoci tutti, da questo momento, in loro favore e, fin da questo istante, mettiamoci d’impegno di volerle aiutare in qualche modo: con sacrifici, con elemosine, con preghiere, con penitenze, affinché giungano finalmente al bramato possesso del paradiso.

Sì, Gesù, noi siamo decisi di impegnarci per la liberazione delle anime del purgatorio e fin d’ora vi offriamo, in loro suffragio, quanto faremo e patiremo nel corso della nostra vita. Amen.