Suore dell'Immacolata

Cecità spirituale

Il cieco di Gerico

Dal brano del Vangelo di S. Marco: 10, 46-48; 51-52

  1. «… caecus sedebat iuxta viam mendicans.
  2. Qui cum audisset quia Iesus Nazarenus est, coepit clamare et dicere: “Fili David Iesu,
  3. miserere mei!”. Et comminabantur ei multi, ut taceret; at ille multo magis clamabat: “Fili
  4. David, miserere mei!”…… “Quid vis libi faciam?”. Caecus autem dixit ei: “Rabbonì,
  5. ut videam”. Et Iesus ait illi: “Vade; fides tua te salvum fecit”. Et confestim vidit et sequebatur eum in via».

CECITÀ SPIRITUALE

Gesù e i suoi discepoli, accompagnato da molta turba di popolo, andava verso Gerusalemme e, mentre si avvicinava a Gerico, trovò lungo la via un povero cieco il quale, sentendo il calpestio della gente, domandò che cosa fosse ciò e gli fu detto che passava di là Gesù Nazareno. Il povero uomo allora gridò forte, dicendo: «Gesù, Figlio di Davide, abbi compassione di me». Quelli che andavano innanzi lo sgridavano perché tacesse, ma egli gridava sempre più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me». A queste implorazioni Gesù si fermò e comandò che gli fosse condotto quell’infelice. Quando l’ebbe vicino: «Che vuoi che io ti faccia?» gli disse. Egli rispose: «La vista, Signore, io ti domando la vista: fa’ che io vegga!» «Vedi, dunque – riprese Gesù – la tua fede ti ha salvato». Subito il cieco vide e gli andava dietro glorificando Dio. Gran male, mie Suore, è quello della privazione della vista.

Quando l’Arcangelo Raffaele si presentò per essere guida al giovane Tobiolo nel cammino che doveva compiere per andare in Rages e da questi fu introdotto in casa, salutò quel buon vecchio di Tobia augurandogli felicità e costui gli rispose: «Quale allegrezza posso io mai avere, essendo privo della vista e non potendo vedere la luce del cielo?».

Aveva ragione, il cieco del Vangelo che, tra tanti altri mali che forse aveva, non si preoccupò di domandare altro al Salvatore se non la vista: « ut videam », quasi bastasse questa sola a provvedere agli altri bisogni, oppure questa sola gli premesse più di ogni altra cosa. Io mi domando: perché Gesù Cristo non volle consolare questo povero cieco concedendogli la vista senza che gliela domandasse? Non vedeva che era cieco? Non sapeva che il poveretto non bramava altro che vedere? Perché, dunque, prima di fargli la grazia tanto desiderata, volle che andasse da Lui per domandargli che cosa volesse? Perché? Per insegnarci che Egli non concede la sua grazia se non a coloro che gliela domandano con fervorosa preghiera e che anche le grazie temporali, se le desideriamo, è bene che le domandiamo a Lui direttamente.

Ora, sapete voi perché, con tutta la parola di Dio annunziata in tutto l’anno e con tante interne ispirazioni che Iddio ci manda, si riscontra in noi così poco frutto che siamo sempre ciechi, sempre poveri e sempre deboli riguardo alla virtù e alla perfezione religiosa? Perché noi non preghiamo il Signore che illumini la nostra mente con la luce della verità e ci faccia conoscere i nostri doveri? Perché non ascoltiamo come si conviene la Parola di Dio, sia interna per mezzo delle ispirazioni, sia esterna per mezzo della predicazione, oppure la ascoltiamo ma non l’applichiamo a noi stessi? Ecco l’argomento che io presento oggi alla vostra considerazione. Voi ascoltatemi con pazienza.

Nella liturgia del Santo Natale la Chiesa ringrazia l’eterno Padre che, per mezzo del mistero del suo Verbo Incarnato, ha mandato al mondo una nuova luce ad illuminare gli occhi della nostra mente. Così in quella dell’Epifania si legge: «Ti rendo grazie, Padre santo, che l’unigenito Tuo Figlio, essendo apparso visibilmente nella sostanza della nostra carne, ci ha salvati con lo splendore della sua immortalità. Nella liturgia della beata Vergine la santa Chiesa, rivolta al divin Padre, dice: «O Padre eterno, siate sempre benedetto e ringraziato che, per mezzo della sempre Vergine Maria, senza diminuire la bella gloria della sua intemerata verginità, mandasti al mondo il lume eterno Cristo Gesù, Signore nostro, già da voi generato nei secoli eterni tra lo splendore dei santi e da Lei concepito nella pienezza dei tempi per virtù dello Spirito Santo».

A queste voci della Chiesa rispondono quelle dei Profeti. Zaccaria, il padre di S. Giovanni Battista, avendo, alla nascita del divin Precursore, riacquistata la favella perduta in castigo di non aver prestato fede alle parole dell’Angelo, intonò l’inno del Benedictus, nel quale ringrazia propriamente il Signore perché, per la sua misericordia, si è degnato di venirci a visitare discendendo dall’alto, per illuminare coloro che giacevano nelle tenebre e nell’ombra di morte.

Isaia, penetrando con lo sguardo profetico le cose future e figurandosi presente alla nascita del divin Salvatore, invita, con tutto il calore del suo spirito, l’ingrata Gerusalemme a risvegliarsi una buona volta dal sonno profondo della sua ignoranza e a non chiudere più gli occhi alla luce della verità, perché ormai è venuto al mondo quel lume divino che deve illuminare la terra con la sua chiarezza, mettendo in fuga ogni caligine e ogni orrore: «Surge Jerusalem, quia venit lumen tuum..et ambulabunt gentes in lumine tuo» . E in un altro luogo lo stesso Isaia chiama precisamente il Salvatore «Lucerna ardente», che rischiara il cammino ai miseri figli di donna.

Se Gesù Cristo è lume che risplende, è luce che rischiara, è sole di giustizia che illumina tutto il mondo ed è venuto a bella posta dal Cielo per illuminare ognuno che viene su questa terra, perché – dice S. Giovanni – l’ignoranza non è scomparsa e tutti, chi più chi meno, abbiamo bisogno di essere rischiarati e illuminati nella mente da questa luce divina per conoscere i nostri doveri?

Vediamo, infatti, che, dopo il peccato di Adamo, la nostra volontà, quantunque non abbia perduto affatto il suo libero arbitrio, rimase non di meno così affievolita e così languida nel bene, così proclive al male, che con grande facilità può essere piegata a peccare.

Vediamo che gli uomini, dopo il peccato di Adamo, smarrite quelle chiare idee del giusto e dell’onesto che Iddio aveva loro impresso nella mente nell’atto stesso della loro creazione, andavano sempre peggiorando di giorno in giorno e si immergevano in così profonde tenebre di ignoranza, che giunsero a disconoscere perfino il loro Creatore.

La legge naturale, che il Signore aveva stampato loro nel cuore e seguendo la quale ciascuno poteva giungere a salvamento, venne soffocata ed oscurata dalle umane passioni in modo tale che non ne appariva più alcuna traccia.

Per richiamare le generazioni ai sani principi e all’osservanza dei propri doveri, fu necessario che di nuovo Iddio parlasse a Mosè sul Monte Sinai dandogli scritta su due tavole di pietra la sua legge, il suo decalogo, e che poi mandasse sulla terra lo stesso Unigenito suo Figlio, perché ci ammaestrasse Lui stesso in persona.

Come possiamo noi dispensarci dall’ascoltare gli insegnamenti di questo divino Maestro? Come presumere di conoscere bene i nostri cristiani e religiosi doveri, senza ascoltare con docilità e umiltà la divina Parola? Come sperare che questa semenza evangelica possa produrre in noi frutti di vita eterna, se noi non le apriamo il cuore e non permettiamo che venga seminata? Il fare altrimenti sarebbe un voler vivere nella propria cecità, un chiudere gli occhi per non vedere la luce, un non sentire la predica, la lettura e l’istruzione per non avere dei rimorsi.

In questo caso, vi pare che imiteremmo il cieco evangelico, il quale non desiderava altro che di avere la vista e di non essere illuminato ed appena sentì avvicinarsi Colui che poteva dargliela, gridando ad alta voce fece ogni istanza per ottenerla?

Per noi sarà tutto il contrario! E allora di chi potremo lagnarci se, non conoscendo bene i nostri doveri non li adempissimo e, non adempiendoli, non potessimo aver parte con i beati nel cielo? Oppure se, pur essendo lassù con i Beati, fossimo privati di molta gloria che avremmo potuto godere se più perfettamente avessimo conosciuto ed operato? Di nessuno certamente dovremmo lagnarci, perché la colpa sarebbe tutta nostra.

Ma io ben vedo che noi non siamo di quelli in cui la Parola di Dio non fa frutto perché non ascoltata. Che anzi, noi l’ascoltiamo ben volentieri e sovente. Può essere invece che anche per noi essa rimanga infruttuosa non perché non la si ascolti, ma perché non la si mette in pratica e non l’applichiamo a noi stessi.

Quando Samuele unse re Saul, figlio di Kis della tribù di Beniamino, Nay Ammonita mosse con un grande esercito contro la città di Jabes nel Galaad. I cittadini, spaventati dalle minacce di quel potente nemico, gli si offersero per sudditi, purché cessasse di molestarli. Nay rispose che li avrebbe accettati a condizione però che fosse a tutti cavato l’occhio destro, non solo perché così fossero inabili alla guerra, ma anche perché fosse più obbrobriosa la loro schiavitù. Udita questa barbara condizione, gli abitanti di Jabes spedirono tosto ambasciatori a domandare aiuto a Saul il quale, sentita la scellerata pretesa dell’empio Nay, mandò subito verso di lui un esercito di trecentomila uomini che lo annientò, lo sbaragliò e lo disperse in un solo combattimento e liberò quei meschini dalla minacciata sciagura.

Ora, quello che voleva fare l’iniquo Nay ai cittadini di Jabes per accettarli come suoi sudditi, lo fa realmente spesso il demonio con noi quando ascoltiamo la divina Parola: ci cava l’occhio destro, cioè lo chiude, perché vediamo solo con l’occhio sinistro. E con l’occhio sinistro che cosa si vede?

L’occhio destro è la ragione, l’occhio sinistro è la passione; con l’occhio destro vediamo quello che conviene all’anima e quello che insegna la fede; che cosa contengono i divini precetti e che cosa richiedono i nostri doveri. Conosciamo le nostre debolezze, i mezzi per ripararle e, in una parola, sappiamo ciò che dobbiamo fare e ciò che dobbiamo schivare per conseguire l’eterna salvezza. Con l’occhio sinistro, invece, non si vede se non ciò che conviene al nostro amor proprio, che piace al nostro egoismo, che serve al nostro comodo. Si vedono solo i difetti degli altri e non i nostri, si trovano mancanze in questa o in quella e non si trovano in noi stessi, benché molto peggiori degli altri. Guardando le cose con l’occhio sinistro, spesso si chiama bene il male e male il bene, si crede prudenza ciò che non è che debolezza, si crede zelo e rigore di osservanza quello che è solo invidia, giustizia quello che è solo parzialità, diritto ciò che è solo capriccio, si giudica carità quello che è mormorazione, conveniente alla salute del corpo quello che è una pura accidia dello spirito; in breve, si stima virtù il vizio e il vizio virtù.

Se il demonio non riesce sempre a chiuderci l’occhio destro, sapete che fa il maligno? Ci intorbida la vista in modo che ci fa giudicare buono tutto ciò che ci torna comodo, sia il bene, sia il male. Questo maligno fa con noi come Caifa con i capi del sinedrio quando discutevano che cosa si dovesse fare di Gesù Cristo, giacché pareva che la gente volesse andare tutta dietro a Lui, lasciando deserta la sinagoga. Saltò in piedi Caifa, sommo sacerdote, e disse: «Sappiate, quanti siete qui radunati a consiglio: questo uomo bisogna farlo morire, perché così torna conto a noi e al popolo.

Noi, in tal modo, conserveremo la nostra autorità, mentre il popolo è sempre soggetto ad essere pervertito da false dottrine. Non importa che non vi sia alcuna causa per condannarlo; è vantaggioso per noi che Egli muoia, e tanto basta. Lo so che costui ha fatto del bene a tutti: ha dato la vista ai ciechi, ha raddrizzato gli storpi, ha fatto parlare i muti, ha risanato gli infermi, ha persino risuscitato qualcuno dai morti, come quel Lazzaro di Madian che noi vediamo passeggiare per le nostre contrade dopo essere stato quattro giorni sepolto, ma non importa. Bisogna farlo morire, perché altrimenti noi resteremo senza seguaci, senza autorità, senza regno».

Così si fa spesso da tanti e tanti cristiani e, forse, anche da noi stessi religiosi.

Non si opera secondo virtù e secondo le norme della retta ragione, ma si opera a capriccio, secondo i dettami della passione e del maledetto amor proprio. Si sa che il fare quella cosa, il frequentare di più la Chiesa e l’orazione sarebbero di grande e religiosa edificazione, ma bisognerebbe per questo privarsi di quella visita, di quel passatempo, di quel guadagno, ma ciò non si accorda col proprio modo di pensare e quindi lo si tralasci.

Si sa che il non immischiarsi nei fatti altrui, il non criticare e soprattutto il non condannare le azioni del prossimo, comunque esse siano, il non parlare e ridere degli altrui difetti è dovere non solo di una persona religiosa, ma di ogni buon cristiano, poiché ciò non conviene alla nostra curiosità abituata a mettere il naso dappertutto e a dire sempre ciò che pare e piace, ciononostante si parli pure di tutto e si giudichino tutti. Non conta che la legge di Dio ce lo proibisca, che il predicatore ammonisca, che il confessore ci esorti e ci minacci: così piace e così si faccia.

Si sa che il tacere in quella circostanza sarebbe grande umiltà, che l’ubbidire con prontezza, volentieri e senza chiederne le ragioni ai superiori o a chi comanda è dovere di ogni religiosa, ma ciò non va a genio alla nostra superbia e quindi si risponda pure francamente e si disubbidisca come meglio piace. Si sa che la mortificazione della gola, degli occhi, della lingua, la ritiratezza, la solitudine, l’orazione sono mezzi opportuni e necessari per mantenere lo spirito religioso, il raccoglimento, il fervore e la devozione, ma ciò reca tedio, noia, rincrescimento, dunque si conversi pure, ci si dissipi, si accontenti in tutto il gusto, il proprio temperamento, la passione.

Ecco, mie Sorelle, come il diavolo ci inganna e, se non ci cava del tutto gli occhi, ci annebbia la vista in modo tale che non distinguiamo più il nero dal bianco, il bene dal male, le virtù dal vizio, la dissipazione dall’onesto sollievo. L’amor proprio ci fa trovare tanti cavilli, tanti pretesti, tante scuse, che volere o non volere, sentir prediche come non sentirne, confessarsi come non confessarsi va sempre bene. Vogliamo sempre vivere a nostro modo: le nostre abitudini mai si cambiano, i nostri volontari difetti non si correggono e non si vedono, perché il nostro occhio sinistro ce li fa sembrare un niente, oppure anche virtù; la santità richiesta dal nostro stato non si acquista e, intanto, ci incamminiamo verso la tomba, Dio sa con quanti debiti con la divina Giustizia.

Dunque, dilettissime mie, impegnamoci a non voler più vivere nelle tenebre di una funesta cecità, accendiamoci anche noi, a imitazione del cieco del Vangelo, di un desiderio ardente di essere illuminati e di avere la vista spirituale dell’anima per poter conoscere bene i nostri doveri e, ben conoscendoli, poterli adempiere esattamente. Raccomandiamoci di cuore al Signore, ripetiamogli le parole stesse del cieco di Gerico: «Signore, fa’ che io veda; che io veda il male e lo detesti, il bene e lo pratichi, che conosca bene me stessa e mi umilii, che conosca Voi e vi ami, la virtù e l’abbracci, il vizio e lo fugga: « Domine, fac ut videam ». Ascoltiamo volentieri la divina Parola, applichiamola a noi stessi, mettiamola in pratica e vedremo come le cose andranno meglio per il tempo e per l’eternità.

Amen.