Suore dell'Immacolata

I difetti contrari

 

I DIFETTI CONTRARI ALLA VIRTÙ’ DELLA SPERANZA

I peccati opposti alla speranza sono due: uno si oppone per difetto e si chiama disperazione, l’altro le si oppone per eccesso e si dice presunzione. Questi sono i due mezzi con cui il demonio tenta le anime del cristiano, facendole o diffidare della divina misericordia, o eccessivamente confidare in essa.

Tutti e due questi difetti sono da fuggirsi; tutti e due sono pericolosissimi. Guai a chi dispera della misericordia divina, ma guai ancora a chi presume di essa! Vi parlerò di questi due vizi, affinché possiate sempre fuggirli, essendo essi sommamente ingiuriosi a Dio e dannosi all’anima che li commette.

La disperazione è la diffidenza della divina misericordia e si commette in varie maniere.

In primo luogo, peccano di questo vizio quelle anime che, spaventate dalla gravità dei loro peccati, disperano di poter conseguire la gloria del Paradiso perché, giudicando le loro iniquità maggiori della misericordia di Dio, non sperano più di poterne conseguire il perdono, temendo che non li possa o non li voglia più perdonare.

Peccano, in secondo luogo, quelle anime che, considerando da una parte la forza dell’abitudine contratta nell’accondiscendere alle loro sregolate passioni, e dall’altro la loro debolezza nel resistervi, disperano del divino aiuto per potersene emendare.

Peccano finalmente quelle che, considerando da una parte la sublimità e la grandezza della gloria celeste e dall’altra la loro viltà e bassezza, si perdono di animo e, dimenticandosi dell’onnipotente misericordia di Dio, non sperano più di conseguirla. Questo è peccato gravissimo e ingiurioso a Dio, perché si oppone più di ogni altro ai suoi divini attributi; si oppone cioè alla sua onnipotente e infinita bontà e diminuisce il merito ed il valore del Sangue prezioso di Gesù Cristo e della sua acerba passione e morte. Chi dispera di ottenere misericordia e salvezza, viene a negare a Dio la sua onnipotenza e bontà, perché giudica che il suo peccato sia tale, che Dio stesso non possa o non voglia più perdonarlo. E questo è un gravissimo peccato, un’ingiuria enorme, un torto eccessivo al nostro buon Dio. Infatti, non vi è cosa impossibile a Lui: Egli è onnipotente e può convertire con la sua grazia anche i peccatori più ostinati, e cambiare anche i cuori di pietra in vasi di santità e di elezione. La voce di Gesù, ch’ebbe la forza di richiamare dalla morte alla vita anche Lazzaro, morto da quattro giorni, può far ritornare un’anima dall’iniquità alla grazia, dalla tiepidezza al fervore, dalla disubbidienza all’osservanza, dalla dissipazione al raccoglimento ed alla ritiratezza.

Che motivo può, dunque, avere l’anima cristiana di disperare della sua eterna salute? Forse la moltitudine dei propri peccati o la gravità degli stessi? Ma che sono tutti i peccati del mondo di fronte all’onnipotenza ed alla misericordia di Dio? E qual peccato, sia pure enorme, vi può essere per cui Gesù Cristo non abbia sovrabbondantemente soddisfatto con gli infiniti suoi meriti? Il sangue di Gesù Cristo, figlio di Dio, ci monda, dice S. Giovanni, e ci lava non da qualche peccato soltanto, ma da tutti i peccati. E’ vero che la divina giustizia vuole piena soddisfazione di qualunque torto od ingiuria le venga recata, ma questa soddisfazione la diede Gesù Cristo, morendo per noi, carico di ignominia e di obbrobri, in mezzo ai più spietati tormenti. Perché, dunque, disperare di ottenere il perdono e di salvarsi? Forse perché avendo noi abusato della divina bontà e avendo, con tanta ostinazione, resistito volontariamente alle sue grazie per tanto tempo, non voglia più usarci misericordia? Non è forse per perdonarci ed aver misericordia che ci ha sopportato per tanti anni, senza punirci, come meritavamo, e senza condannarci all’inferno fin dal nostro primo peccato? Sì, il Signore vi ha aspettato, dice Isaia, ed ancora adesso vi aspetta, per usare con voi la sua misericordia. Non avete mai udito o letto nella divina Scrittura o nella storia della Chiesa che uno, avendo sperato e confidato in Dio, ne sia rimasto confuso? Non avete mai udito o letto che la divina misericordia abbia condannato un peccatore che, con cuore umiliato e pentito, sia a lei ricorso? No mai. Avrete anzi udito, o letto che Iddio, non solamente non confonde e allontana chi a lui ricorre pentito, benché colpevole di molti peccati, ma che Egli stesso, anzi, lo sollecita e lo stimola, l’invita al pentimento.

Osservate un pastore, a cui si smarrisce una delle sue care pecorelle. Voi lo vedete come, preso da grande afflizione, abbandona il resto del gregge e se ne va premuroso, in cerca della fuggitiva; corre per la pianura, sale sopra il monte, traversa la macchia ed ogni selva. Grida, fischia, chiama la pecorella per nome, né mai si ferma o riposa, finché non l’abbia trovata. Rinvenuta, non la sgrida, né la riprende, anzi, risparmiandole la fatica di ritornare con i suoi piedi, se la prende sulle spalle e, tutto allegro, la riporta all’ovile. Questa non è che una semplice immagine di quello che fece e fa continuamente il divin Salvatore con quelle anime che l’hanno abbandonato e si sono volontariamente allontanate da Lui. Per salvarci, è sceso dal cielo in terra, e che non fece, che non patì per questo? Che non fa attualmente? Dà interne ispirazioni, lumi alla mente, impulsi e mozioni al cuore; ci sollecita con prediche, istruzioni, avvisi, correzioni fraterne, esempi di virtù altrui: sono queste, tutte voci e chiamate con cui il divin Pastore tenta di condurre le pecorelle traviate sulla retta via della santità. Perché, dunque, diffidare della divina bontà? Perché fare a Dio questo gran torto di disperare della sua misericordia, di non mettere in lui ogni confidenza di ottenere il perdono delle proprie colpe, e gli aiuti necessari per fare il bene e fuggire il male? Temete forse, o anime diffidenti, che ritornando al vostro buon Dio, dopo essere state tanti anni sleali ed ingrate con Lui, vi abbia ad accogliere con riprensioni e rimproveri come meriterebbe la vostra malizia? No, anzi vi riceverà con tanta tenerezza e con tanto affetto. Non ricordate voi la buona accoglienza che fece al figlio prodigo quell’amatissimo padre di cui parla Gesù Cristo? Avendo questi dissipate le sostanze paterne ed essendo ridotto all’estrema miseria, per non morire di fame, si avviò verso la casa paterna, per esservi ammesso, non come figlio, perché se ne stimava indegno, ma in qualità di servo. Il padre, appena lo vide da lontano, sebbene così malandato e sofferente, lo riconosce per il suo caro figlio smarrito e, mosso da tenera compassione, gli va incontro, gli si getta al collo, lo abbraccia e, piangendo di tenerezza, gli stampa in fronte mille e mille baci amorosi.

Il figlio, memore del suo ingiurioso comportamento, confuso si getta a terra, confessa d’essere indegno di sì buona accoglienza, perché ha peccato contro il cielo e contro di lui; protesta di non meritarsi più il nome di figlio, e d’essere più che contento se ancora lo riceve in casa in qualità di servo. Ma il buon padre lo solleva con le proprie mani dal suolo, lo fa rivestire a nuovo, ordina feste e banchetti per averlo ricuperato, gli pone al dito l’anello e lo accoglie come figlio ed erede.

In questo padre evangelico, che accoglie con tanta tenerezza il più iniquo e il più ingrato dei suoi figli, che ritorna a lui pentito dei propri traviamenti, è rappresentato Iddio pietoso che accoglie, con amore veramente di padre, i peccatori ingrati, quando, pentiti dei loro falli, tornano fra le amorose sue braccia. Nel figlio sciagurato, invece, che, non volendo più essere sottomesso al padre, chiede la sua porzione di eredità, parte da lui e va a scialacquarsela con una vita dissoluta e scorretta, sono raffigurati tutti coloro che, peccando, han voltato le spalle a Dio, e, dandosi in preda alla dissolutezza e ai disordini, hanno scialacquato l’inestimabile tesoro dell’innocenza battesimale e della grazia.

E noi, mie Sorelle, non ci commuoveremo di fronte a tanta bontà e misericordia, e non ci sentiremo rapite da tanta tenerezza? Ci sgomenteranno ancora il numero e la gravità dei nostri falli? Dispereremo ancora di conseguire da Dio il perdono, se ricorreremo a Lui veramente pentite? Nutriamo invece una grande fiducia nella divina misericordia e speriamo da lei ogni bene. Se noi, peccando, siamo stati figli ingrati, Egli però non ha perduta la sua indole amorosa di padre, il più benevolo dei padri. La sua bontà è infinitamente maggiore delle nostre colpe, e quando noi vogliamo pentirci seriamente, proveremo ben presto i mirabili effetti del suo paterno perdono.

L’altro peccato opposto alla virtù della speranza è la presunzione. Chi dispera della misericordia di Dio commette un peccato più grave di colui che in essa eccessivamente presume, essendo più ingiurioso a Dio negargli i suoi divini attributi che confidare troppo in essi; nonostante ciò, la presunzione è anch’essa un grave peccato contro lo Spirito Santo, perché dà adito ai malvagi di offendere maggiormente Dio, credendo di potersi salvare senza adoperare i mezzi necessari.

Di questo peccato di presunzione si rendono colpevoli tutti coloro che non si sforzano di mortificare le loro passioni e di correggere la loro vita dissipata e scorretta. Essi pensano che, essendo Dio ricco di misericordia, ed infinita bontà, facilmente perdona; che si può ora vivere allegramente senza tanti scrupoli e malinconia; basta poi alla fine domandare perdono.

Peccano di presunzione anche quelli che pretendono di salvarsi senza adoperarne i mezzi. « Iddio, dice S. Agostino, ci ha redenti senza di noi, ma non vuol salvarci senza di noi ». La sua misericordia è infinita e sa ben compatire la nostra miseria, ma vuole che anche noi facciamo la nostra parte, cioè: a) che stiamo lontani dalla colpa, b) che ci esercitiamo in opere buone, C) che pratichiamo un santo rigore di penitenza e di cristiana mortificazione; questi sono i tre mezzi necessari per conseguire la salute eterna. Col peccato nell’anima, è di fede che nessuno può salvarsi, perché il peccato ci allontana da Dio, ci priva della sua grazia e della sua amicizia; pertanto chi non si cura di stare lontano dal male e conduce una vita sregolata, credendo di andare ugualmente in cielo, e di meritare la divina misericordia per alcune pratiche di devozione da lui praticate, commette un grave errore di presunzione, perché pretende di salvarsi senza fare ciò che è necessario. Così, chi si accontenta di non fare il male, senza poi prendersi pensiero di fare il bene, di esercitarsi in opere buone e virtuose, e nonostante ciò vive sicuro del Paradiso, questi è reo di presunzione, perché, è di fede, che senza le opere buone, fatte in grazia di Dio e col soccorso della medesima grazia, nessuno può avere l’eterna beatitudine.

Perciò lo Spirito Santo nei salmi ci avverte di fuggire il male e praticare il bene: declina a malo et fac bonum. Gesù Cristo nel Vangelo chiama la gloria del Cielo non dono e regalo, ma mercede o premio: premio e mercede, dice S. Paolo, che non si danno se non alle opere buone che si sono esercitate, e alle fatiche che si sono sofferte per amor di Dio.

Pecca di presunzione chi vuol salvarsi senza far penitenza, mentre le divine Scritture non fanno altro che inculcare ai seguaci del Crocifisso la penitenza, come mezzo indispensabile per raggiungere la gloria eterna. Così Gesù Cristo in S. Matteo: agite paenitentiam; così anche il Battista in S. Giovanni. « Quelli che sono di Cristo mortificano la loro carne, con i vizi e la concupiscenza »: così S. Paolo nella sua lettera ai Galati. E questa penitenza deve essere interna ed esterna. L’interna, porta ad odiare ed aborrire ogni sorta di peccato, facendoci provare un gran dolore d’averlo commesso e spronandoci a risolvere di morire, piuttosto mille volte che tornare a commetterlo. L’esterna, ci spinge a castigare i nostri sensi e a far patire un poco il nostro corpo, che ci fu tante volte occasione o strumento di peccato.

Finalmente peccano di presunzione tutte le anime che confidano troppo nelle loro forze e qualità; che si stimano migliori degli altri; che dicono che esse non commetterebbero mai né questo, né quell’altro difetto a qualunque costo e si meravigliano come altri vi possano cadere.

Quando Gesù Cristo nell’ultima Cena, predisse ai suoi discepoli che in quella notte della sua passione essi si sarebbero scandalizzati per le cose che sarebbero accadute a Lui, e, in particolare, predisse a Pietro che in quella notte l’avrebbe rinnegato tre volte, prima che il gallo cantasse, Pietro, pieno di coraggio, protestò che non si sarebbe mai scandalizzato anche se si fossero scandalizzati gli altri, e che egli era pronto a morire con Lui piuttosto che negarlo. Ma proprio in castigo di questa sua presunzione, di stimarsi più degli altri e di non temere il pericolo, quantunque ne fosse avvisato dalla stessa Incarnata Sapienza, cadde nel grave peccato di negare tre volte il Signore.

Dunque, mie figlie, non presumiamo mai di noi stessi, non ci fidiamo della nostra forza, poiché da noi non possiamo nulla e, nonostante ogni buon desiderio, se Iddio non ci aiuta con la sua grazia, possiamo cadere in ogni colpa. Quando ci capita di vedere o di sentire che qualcuno dei nostri prossimi cadde in qualche colpa o difetto, non ce ne meravigliamo, ma piangiamo e preghiamo per lui, e ringraziamo il Signore che ci abbia aiutato a non cadere anche noi in quella medesima mancanza in cui è caduto il nostro prossimo. Speriamo sempre nella divina bontà, ma temiamo anche di noi, perché se è gravissimo peccato disperare nella misericordia di Dio, è anche peccato il presumere che questa ci debba salvare senza la nostra collaborazione; non confidiamo troppo in noi stessi e non crediamoci capaci di agire bene, senza l’aiuto della grazia. Temiamo di noi, ma speriamo in Dio, in modo che la nostra speranza non degeneri in riprovevole presunzione. Amen.

LA CARITÀ

La carità è la virtù più nobile, più sublime e più eccellente di tutte le altre. Come le virtù teologali, poiché riguardano Dio immediatamente, s’innalzano sopra tutte le virtù morali, che hanno per oggetto l’onesto, così fra le virtù teologali, gode il primato la carità. Essa, dice S. Paolo, è maggiore della fede e della speranza, perché la fede riguarda Dio solo in quanto alle verità da Lui rivelate, e la speranza riguarda Dio solo come oggetto della sua beatitudine che spera di possedere. La carità invece riguarda Dio così immediatamente che in Lui si ferma e si appaga: nel cielo cesseranno la fede e la speranza, perché lassù si vedranno apertamente le verità che ora crediamo e si godrà quell’infinito Bene che ora speriamo, ma non cesserà la carità, che anzi diverrà più fiammeggiante e perfetta. Non è da meravigliarsi: infatti tutte le virtù traggono origine e si alimentano ai tralci dell’albero della carità, e di tutti i meriti essa è principio e forma. In essa consiste tutta la legge; e tutti i precetti della legge si assommano in questo solo: amore! Questa è la veste nuziale dei figli di Dio; veste che nessuno può indossare se prima non depone quella di schiavo delle passioni e del peccato; veste preziosa che copre la moltitudine dei peccati; veste preziosa di cui, parlando l’Apostolo nella sua I lettera ai Corinzi, tesse tanti splendidi elogi.

Di questa santa carità, seguendo l’ordine delle nostre istruzioni, io devo parlarvi stasera, mie figlie, ma, purtroppo non saprò farlo degnamente.

Mi sarebbero necessarie, in questa materia, le espressioni, non solo, ma i concetti e le fiamme di un serafino, tanto essa è sublime e divina! Ma poiché non mi è dato di attingere tanto in alto, m’ingegnerò di parlarne alla meglio, lasciando che suppliscano i miei desideri, dove non arrivano le mie capacità. Poiché si tratta di carità, voi usatela con me nell’udirmi con pazienza: vi mostrerò che cosa sia la virtù della santa carità, come ci sia raccomandata e come debba adempirsi un tale comandamento.

La carità è una virtù teologale, un dono infuso da Dio nell’anima nostra quando abbiamo ricevuto il santo Battesimo, dono che ci porta ad amare Dio per se stesso sopra tutte le cose, ed il prossimo come noi stessi per amore di Dio. Da ciò si vede che due sono gli oggetti della carità: Dio e il prossimo; Dio come oggetto primario; il prossimo come oggetto secondario. Questa sera parleremo solo della carità verso Dio.

Questa, dunque, è una virtù teologale, ma di tutte la più eccellente, perché, come abbiamo detto, riguarda immediatamente Dio. Si dice infusa da Dio perché, essendo un dono soprannaturale, Dio solo può produrlo nelle anime nostre. Secondo il detto di San Paolo: « La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo, che è dato a noi ». La carità perfetta ama Dio per se stesso, e non perché è buono con noi e può farci eternamente felici; questo sarebbe un amore interessato e nasce dalla speranza, ma se lo amiamo perché è buono in se stesso e per la sua infinita amabilità, questo è un amore prestantissimo di benevolenza e di amicizia. Per mezzo di questo, l’anima riposa nel suo Signore, gode e si compiace ch’Egli sia infinitamente grande, buono, santo. Si compiace e gode di tutte le sue infinite perfezioni e specialmente della sua gloria. Non basta: brama, inoltre, efficacemente e procura che da tutte le creature del mondo questo buon Dio sia riconosciuto, stimato, lodato, perfettamente amato e glorificato. Ma v’è forse, dirà qualcuno, qualche comandamento che ci obblighi ad amare il nostro Dio con quest’amore così perfetto di benevolenza e di amicizia? La natura stessa non ci insegna forse che si deve amare il Creatore supremo di tutte le cose? Le Sante Scritture non gridano tutte che il divino Rimuneratore, Glorificatore e Redentore è degno d’essere amato da noi con tutto il cuore e con tutte le forze? Questo amore è principio e fine di tutta la religione cristiana, pertanto, chi nega quest’obbligo di amare Dio, distrugge, con un sol colpo, tutta la religione cristiana. Difatti noi vediamo che non c’è cosa che sia più frequentemente inculcata dalle divine Scritture, quanto questo grandissimo, e primo fra tutti, comandamento. « Ascolta, Israele, disse Mosè a tutto il popolo eletto, il Signore Dio nostro è il Signore Dio tuo: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. Queste mie parole saranno sempre impresse nel tuo cuore ». « Qual è il più grande comando della legge? ». Disse a Cristo quel dottore fariseo. E Cristo gli rispondeva: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutta la mente tua: questo è il massimo e il primo comandamento».

Non c’è dunque da dubitare: l’amor di Dio ci è strettissimamente comandato ed è un precetto inerente alla stessa ragione naturale. Dio, essendo infinitamente amabile per Se stesso, e essendo nostro ultimo fine, come dicono i teologi, secondo le leggi della sua infinita sapienza, non poteva non comandare d’essere, per Se stesso e sopra tutte le cose, amato dalla creatura ragionevole e capace d’amore. Ma quale dev’essere questo amore perché giunga all’adempimento di così grave comandamento? Dev’essere intero, operativo, costante. Dobbiamo amar Dio con tutto il cuore, adempiendo con esattezza tutti i suoi divini comandamenti e mantenerci a Lui fedeli fino alla morte, nonostante le difficoltà e gli ostacoli.

La prima condizione dell’amor nostro verso Dio è che sia totale ed intero. Così ci viene chiaramente specificato dalle stesse parole con cui è formulato questo gran comandamento, già accennate sopra: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente. Ciò vuol dire che tutti i pensieri della nostra mente, tutti gli affetti e i movimenti del nostro cuore, gli stessi nostri sensi e desideri devono essere indirizzati a Dio né mai colpevolmente occupati in altri oggetti che non siano Dio. Ma se è così, dirà forse taluno, bisognerà abbandonare amici e parenti, cure, occupazioni, traffici, lavori ed ogni cosa terrena e star sempre in chiesa ai piedi degli altari, od in altro luogo ai piè del Crocifisso, in continua contemplazione? Beate voi se bramaste di far ciò, per non attendere ad altro che a Dio! Ma non è necessario questo. In due maniere, dice S. Bonaventura, si può amar Dio sopra ogni cosa con tutto il cuore:

a) in un modo tutto singolare e perfetto, che escluda ogni affetto che non sia per Dio, talmente che il cuore non abbia moti, la mente pensieri che non tendano a Dio e di null’altro si viva se non del suo santo amore; b) l’altra maniera non così singolare e perfetta, è quando si amano anche le creature, ma in modo tale che nel nostro cuore il primo posto l’occupi sempre Dio.

La prima maniera è quella con cui amano Dio gli Angeli e i Beati nel cielo, e aspirano ad amarlo le anime più innamorate e più accese d’amore per Lui. Perché non siamo anche noi in questa sì invidiabile necessità di amare il nostro buon Dio in tal modo? Perché il nostro cuore non si sente rapire da quella fiamma divina, da cui sono accesi gli Angeli e i Beati nel Cielo, e non ci fa, noi pure, ritrovare quiete, centro e riposo nel solo amor divino? Perché, almeno, non avvampa il nostro cuore tra quei beati incendi fra cui ardevano i Santi? Ma per amar Dio con amore d’integrità sì perfetta, bisognerebbe essere in Paradiso in compagnia degli Angeli e dei Beati, oppure aver lo spirito così illuminato e il cuore così acceso come l’avevano i Santi. Dio però, vedendo che ciò riuscirebbe molto difficile alla nostra fragilità e freddezza, non ha voluto che questo amore così perfetto fosse oggetto di precetto; si è contentato di essere amato dalle sue creature con amore d’integrità tale che, innalzandosi sopra tutte le cose, non ammette con esse divisione colpevole, cioè Iddio vuole essere amato in modo che Lo si preferisca a ogni creatura e che si affronti ogni cosa piuttosto che perdere, disgustare, offendere Lui, Bene infinito. Questo solo ha voluto che cada sotto precetto, e a questo solo intende obbligarci. Non vieta dunque di attendere anche alle faccende e ad affari terreni; non vieta di amare i parenti, gli amici, i congiunti e altre cose di questo mondo; vieta solo di amarli al di sopra di Lui e, per causa di essi, o di qualunque altra creatura, indulgere a disgustarlo ed offenderlo in qualsiasi modo: « Chi ama il padre, la madre, il fratello, la sorella più di me (lo stesso disse di ogni altra cosa) non è degno di me » dice Gesù in S. Matteo.

Ma ditemi, mie figlie, pare a voi che si ami oggi Dio da tutte le anime cristiane con quest’amore d’integrità, che non ammetta divisione di sorta? Vi pare che amino Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la loro mente quelle anime che sono piene di amor proprio e di vanità, quelle anime che cercano sempre la loro soddisfazione, che corrono dietro con tanta passione ad un misero oggetto passeggero e caduco, quasi che questo fosse il fine di ogni loro azione? Vi pare che amino Dio con amore d’integrità quelle anime che vivono col cuore diviso in mille e mille oggetti terreni, che hanno la mente occupata in tutt’altro che in Dio; e che in tutt’altro che in Dio trova gusto e piacere il loro cuore; tutt’altro che Dio venerano e rispettano, e sono così attaccate alla loro volontà che guai a chi le contraddica in qualche cosa? Dio d’infinita bontà, d’infinita bellezza, quanto male v’incontraste con i figli degli uomini! Voi venite posposto allo sfogo di una vile passione, d’un puntiglio, d’una vanità, d’un falso piacere. Per non negarsi una minima voglia, per non soffrire una piccola contrarietà, per non incontrare un minimo travaglio, per ordinario si preferisce la vostra offesa. Questo è l’amor divino che regna oggi giorno tra le anime cristiane? Guai a chi non ama il Signore! Egli è reo di morte eterna: chi non ama rimane nella morte, dice S. Giovanni.

Ma non basta amar Dio con amore intero che s’innalzi sopra tutte le cose; bisogna amarlo ancora con amore operativo: occorre che si adempiano i precetti della sua legge: « Se voi mi amate – dice Cristo in S. Giovanni, parlando ai suoi discepoli – osservate i miei comandamenti ». Sapete chi è colui che più mi ama? Colui che tiene conto dei miei precetti e tutti esattamente li osserva. Questa è la pietra di paragone con cui si deve provare l’amore verso Dio. Chi osserva scrupolosamente i suoi comandamenti, ama Dio; chi questi trasgredisce ha un amore molto povero. Vi sarà chi si flagella fino a sangue, chi porta il cilizio, chi spesso digiuna, chi si trattiene a lungo in orazione, ma come si pratica la legge di Dio? A questo si deve guardare, per conoscere se veramente amiamo Dio. Dio comanda nella sua legge di adorare Lui solo, di invocare il suo santissimo nome, d’impiegare santamente i giorni a Lui consacrati, di amare il prossimo come noi stessi. Comanda che riconosciamo i nostri Superiori come rappresentanti di Lui stesso, che ascoltiamo la loro voce come la sua voce stessa; che si neghi la propria volontà e si prenda la propria croce, se si desidera seguirlo. Ma come si osservano questi santi comandamenti dalle stesse persone religiose, oggi? Invece di serbare il nostro cuore a Dio solo, lo si lascia occupare dalle creature, dagli affetti mondani; il divin nome si nomina con poco rispetto e devozione; i santi giorni di festa sono destinati a fare ed a ricevere visite e più degli altri si consumano in tante chiacchiere ed oziose parole e fors’anche in mormorazioni; insomma sono i giorni di maggior dissipazione. Il prossimo si ama quando ci va genio e ci accarezza, altrimenti si guarda bieco, si avversa, si disprezza. I Superiori si rispettano quando la pensano come noi; si ubbidiscono quando comandano cose confacenti al nostro gusto; si amano e si portano in palma di mano quando ci accontentano in tutto; ma se ci contraddicono in qualche nostro desiderio, se ci negano qualcosa o se ci fanno qualche giusta correzione o ci comandano qualcosa a noi spiacevole, allora si brontola con le consorelle, si aborriscono o si avversano, almeno nell’interno, e si giunge talvolta ad augurare loro del male. La volontà propria non la si vuol mai contraddire; la croce, la tribolazione si guardano con diffidenza; si soffre con impazienza; ci si riempie di malumore per un nonnulla. Vi pare questo il modo di osservare con esattezza i divini comandamenti? Vi pare di amar Dio con tale amore operativo che adempia tutta la divina legge? Eppure è certo che per essere privi dell’amor di Dio, non è necessario che si trasgrediscano tutti i precetti della legge: basta che se ne violi uno solo. Dio priva della sua grazia tanto colui che trasgredisce un solo comando, come colui che trasgredisce tutte e due le tavole della legge: sia l’uno che l’altro Egli priva del Paradiso e condanna all’Inferno.

Per ultimo l’amor divino dev’essere costante, col rendersi superiore ad ogni tentazione ed assalto con cui il demonio, il mondo e la carne cercassero di allontanare il nostro amore da Dio e farci cadere in peccato. L’amor di Dio non consiste in dolci parole o dolci aspirazioni, bisogna che venga alla pratica, che resista ad ogni difficoltà anche penosa e dura. Se nei pericoli cediamo, se le tentazioni ci vincono, se le tribolazioni di spirito o di corpo ci abbattono, se una offesa suscita risentimento contro l’offensore, il nostro amore verso Dio è falso, come l’oro che non regge al fuoco. Perché l’amore di Dio sia costante non basta resistere a qualche tentazione, sopportare qualche travaglio, tollerare in pace qualche affronto per qualche tempo: bisogna resistere a tutte le tentazioni, a tutte le contrarietà con pazienza, sempre fino alla morte. Dobbiamo essere risoluti di amare il nostro buon Dio in modo che nulla ci possa staccare da Lui: né tribolazione, né angustia, né fame, né persecuzione né spada, né la morte stessa. Questo è l’amore intero e co stante, che deve regnare nei nostri cuori, se vogliamo compiere quel precetto che Dio ci ha dato quando ha detto: «Ama il Signore, Dio tuo, con tutta l’anima tua, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze ». Amen.