Suore dell'Immacolata

Meditazione dolori

 

MEDITAZIONE SUI DOLORI DI MARIA

Grande è la pietosa devozione e il compassionevole affetto che dai cristiani si porta alla Vergine Addolorata, per quegli spasimi crudeli che, nel corso della sua vita mortale, orribilmente trafissero e squarciarono il suo cuore santissimo. Certamente Maria non potrà non mirare con occhio lieto e non accogliere con cuore sereno le lacrime e i profondi sospiri di quei fedeli che rammentano la profondità e l’acerbità di quelle ferite, per cui Ella giustamente viene chiamata Regina dei Martiri, Madre dei dolori.

Ora io vi mostrerò la Vergine Addolorata trafitta da acutissima spada, da quella spada di dolori e di affanni che già le aveva predetto il santo vecchio Simeone, nel fausto giorno della presentazione di Gesù al tempio. Avessi io il tempo di meditare a lungo, mie dilettissime, per mostrarvi questa profetica spada che, affilata a più tagli, trafisse a Maria lo spirito, il cuore e l’anima. Vi farei vedere che le trafisse lo spirito con un dolore acuto e profondo per le pene di Gesù; le trafisse il cuore con un dolore tenero vedendo le pene di Gesù; le trafisse l’anima con un dolore forte considerando le pene di Gesù. Ma poiché la brevità del tempo non mi consente di poter svolgere per intero questo doloroso argomento, mi limiterò alla seconda ferita inferta dalla spada di Simeone nel cuore di Maria; vi mostrerò, cioè, che Maria ai piedi della croce fu trafitta nel cuore da un foltissimo dolore nel vedere le pene amare di Gesù, suo divin Figlio, persuaso che ciò basterà a muovervi ad una tenera compassione e devozione verso i dolori di questa Vergine appassionata.

Mi sembra, rev.de suore, che a farvi comprendere quanto fosse affilata la spada profetica che trafisse Maria ai piedi della croce e nel vedere le pene del suo Gesù, sarebbe necessario che vi mostrassi dapprima quanto intenso fosse l’amore che Ella portava a questo suo caro Figlio perché, dicono gli studiosi, quanto più è grande e potente l’amore che spinge un amante ad amare un oggetto, tanto più è acerba e cruda la pena che quegli soffre quando perde lo stesso oggetto del suo amore.

Ma come posso io fare ciò, entro i limiti di tempo consentiti alla mia meditazione? Vi basti sapere che Maria amava Gesù con amore sommo, intenso, con un amore che supera ogni mente che non sia divina. L’amava con amore naturale, materno come suo Figlio, e quale Figlio e con amore soprannaturale come suo Dio e Dio sommamente amabile. Sicché, congiunti insieme questi due amori, l’amava immensamente più di quello che l’amano gli Angeli, gli Arcangeli e tutti i cori celesti: l’amava immensamente più di quanto l’amassero i Pa-triarchi, i Profeti, gli Apostoli, i Martiri, le Vergini e tutti quanti ebbero ed avranno l’esistenza.

Posto ciò, io ragiono così. Se immenso era l’amore che Maria portava a Gesù, se questo suo amore oltrepassava infinitamente l’amore che portarono e porteranno a Dio tutti gli esseri creati, umani e celesti e se l’intensità dell’amore è il contrassegno dell’acerbità del dolore che si soffre nel veder soffrire l’oggetto amato, ne segue logicamente che immenso, eccessivo e superiore a ogni sofferenza di creatura umana fu pure il dolore che Maria sostenne alla morte del suo caro Figlio. La Vergine stessa affermava tale cosa quando, appropriandosi le parole di Geremia, invitava dalla cima del Calvario quanti passavano in quei dintorni a ponderare l’amarezza del suo dolore, per vedere se, tra tutti i discendenti di Adamo, si fosse trovato qualcuno più afflitto di Lei, e da un dolore uguale al suo: «O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus». Ma non si troverà mai – aggiunge san Giustino – fra i tribolati, dolore uguale a quello di Maria, perché non avverrà mai di trovare un amore uguale all’amore di Maria.

Per questo il profeta Geremia, considerando fin dai suoi tempi l’acerbo dolore e il crudele affanno che doveva soffrire la Vergine alla morte del Figlio, tanto la vide addolorata, che non seppe a chi rassomigliarla. Egli scorse con sguardo profetico tutti i secoli, ma non trovando alcuno trafitto da un dolore che potesse uguagliare quello di Maria, concluse che la sofferenza di questa madre afflitta era grande come il mare. Con ciò ha voluto significarci che, anche se si unissero insieme tutte le pene dei martiri, non sarebbero simili al dolore della Vergine, perché tra le sofferenze di quelli e le sofferenze di questa vi è la stessa differenza che intercorre tra il vasto oceano e i piccoli ruscelli di campagna che, serpeggiando, passano tra valli e campi. Anzi, dice sant’Anselmo che tutto ciò che di crudele patirono i martiri sotto i flagelli e sopra gli aculei è quasi un nulla in confronto dell’interno spasimo che provò il cuore di Maria ai piedi della croce.

Non meravigliatevi di ciò; infatti, se una madre che ama teneramente suo figlio, nel vederlo leggermente ferito piange inconsolabile, chi mi sa dire il crudele dolore del cuore di Maria allorché, giunta sulla cima del Golgota, vide il suo Gesù non solo ferito, ma piagato da capo a piedi? Chi mi sa dire il grande dolore della Vergine quando vide dai manigoldi buttato sulla croce il caro Figlio e intese i colpi dei martelli che inchiodavano le mani e i piedi di Lui? Chi mi sa dire il suo strazio allorché vide le chiome del suo Figlio diletto scomposte, intrise di sangue, le guance livide, smorte, insomma, tutte le membra lacere e ferite?

Il veder morire il suo creatore, il suo redentore, il suo Dio, quello di cui tutto è dono singolarissimo: quest’aria che si respira, questo sole che ci illumina, questa terra che ci alimenta, quest’anima che ci regge; vedere i suoi strazi, le piaghe, il sangue scorrere, avrebbe spezzato ogni cuore, non solo quello di una Madre amantissima. Guarda, le doveva dire l’amore, guarda, o sventurata Madre, dove andarono a finire le tante tue sollecitudini nel crescere questo tuo diletto Figlio! Che giovò l’averlo amato con tanta cura? Che giovò l’averlo condotto in salvo in Egitto, sottraendolo alle insidie di Erode? Meglio sarebbe stato che fosse morto bambino in culla che pendere ora da un legno fra tanti strazi: sarebbe stato risparmiato tanto sangue al Figlio e tanto tormento alla Madre.

Lascio ora a voi immaginare quale fosse la piena dell’amarezza di questa Madre addolorata. Vi basti sapere che fu così grande il suo dolore, che Ella avrebbe dovuto morirne se non fosse stata sorretta da uno speciale conforto da quello stesso Figlio per cui si doleva. Cosicché il cielo, dicono i santi Padri, rese possibili due eventi straordinari: uno che potesse morire il Figlio di Dio; l’altro che, vedendolo morire, potesse sopravvivere la Madre dello stesso Dio.

Ancora: i dolori tenerissimi del cuore appassionato della Vergine, per non poter recare alcun sollievo a Gesù, crebbero a dismisura.

Io immagino di vedere in una deserta campagna Agar ed il suo Ismaele.

Questi, dal lungo errare per vaste e arse solitudini, languisce per una sete eccessiva; quella per compassione si strugge ed ora mira il cielo, quasi pregandolo con gli sguardi, di prestare qualche refrigerio con la sua pioggia ed ora si china sulla terra per cercare se, per avventura, vi fosse qualche cespuglio umido di rugiada, con cui bagnare le arse labbra del figlio morente. Ma scorgendo la terra e il cielo avari di ogni ristoro alle sue pene ed inflessibili ai suoi lamenti, con un misto di tenerezza e di dolore: «Anima mia – esclama rivolta al suo caro Ismaele – non mi regge il cuore di vederti morire senza poterti aiutare. Lascia pertanto che io mi allontani da te, poiché troppo mi affliggerei se tu perdessi, sotto i miei occhi, quella vita che ti vorrei conservare ad ogni costo».

Non altrimenti Maria ai piedi della croce. Ella vede il suo caro Gesù piagato, trafitto, con il volto pallido, con le tempie cinte dalle spine, con le mani e i piedi trapassati dai chiodi, col corpo tutto lacero sul patibolo e non le è permesso di recargli alcun sollievo. Quel bellissimo corpo, che fasciò tante volte con sì riverente affetto, spogliato della sua veste, sta esposto agli insulti della turba: vorrebbe ricoprirlo, ma non può; quelle labbra sitibonde per insoffribile arsura chiedono refrigerio; Ella vorrebbe, con le sue lacrime, almeno mitigarne l’ardore, ma non può.

Già emette l’ultimo respiro; le smorte labbra raccolgono gli aneliti estremi dello spirito vitale. Vorrebbe anche Maria allontanarsi da Lui con un ultimo abbraccio, con un caro bacio; alza quindi le braccia più per il desiderio che per la speranza di poterlo abbracciare, stringere, baciare, ma non può. O .dolore sommo di una Madre! Agar, poiché non poté recar sollievo al figlio morente, andò a mitigare in parte il suo affanno nelle foreste che riempiva dei suoi lamenti, ma a Maria mancò anche questo sollievo, poiché tenne fisso lo sguardo sugli spasimi del Figlio e, per quanto ogni sguardo fosse per il suo cuore un dardo penetrante, tuttavia proseguì coraggiosa a fomentare il suo tormento guardandolo con costanza.

Si legge nella Genesi che il patriarca Giacobbe, veduta la tunica insanguinata del suo Giuseppe che credeva essere stato sorpreso nel bosco da una feroce fiera, pianse inconsolabile, si stracciò le vesti, si coprì di cilicio e giurò altamente di non voler accettare alcun conforto al suo affanno. Che sarebbe stato se gli inumani fratelli, attuando la loro prima intenzione di ucciderlo, avessero recato al buon vecchio non la tunica, ma il cadavere stesso di Giuseppe, straziato e ancora intriso di sangue? Io credo che in questo caso si sarebbe subito avverata la sua appassionata protesta: «Discendo, piangendo, con mio figlio negli inferi».

Intenda ora, chi può, il dolore ineffabile che, di fronte all’esanime cadavere di Gesù Cristo, provò il cuore di Maria.

Anima devota, che hai veduto Maria ai piedi della croce, trafitta orrendamente dalla spada di Simeone nel cuore, con un dolore eccessivo e tenero nello stesso tempo vedere le pene amare del suo Gesù; anima devota, riflettendo che le nostre trasgressioni e i nostri peccati furono la causa funesta dei suoi dolori, poiché con questi le abbiamo tolto il caro Figlio la cui morte le causò tanti spasimi, non sia mai che tra di voi, mie figlie, vi sia alcuna che con nuovi difetti e con nuove colpe le rinnovi l’affanno e torni a crocifiggerle il diletto Figlio.

Troppo, per nostro amore, Ella ha sofferto! Stia solo in mano di genti barbare e di cristiani malvagi, quella lancia crudele che, squarciando anche dopo la morte il petto a Gesù, trapassò spietatamente il cuore a questa Madre amorosa.

Noi, invece, con la nostra condotta intemerata, virtuosa e perfetta, vogliamo rimarginare le piaghe di Gesù ed asciugare il pianto di questa afflittissima Madre. Voi con la vostra devozione, con la vostra vita esemplare, con la frequenza ai Santi Sacramenti e alla Parola di Dio confortate dolcemente Maria nelle sue amarezze, rallegrate il suo cuore trafitto e da qui innanzi fate che i suoi dolori acerbissimi siano l’oggetto più interessante della vostra pietà. Che se da noi non possiamo fare nulla, rivolgiamoci a Maria addolorata e imploriamo da Lei la grazia di essere devoti ai suoi dolori, affinché ci siano mezzo efficace per vincere le nostre sregolate passioni.

Deh, fate, o Maria, che noi sentiamo le vostre pene, causate in voi dalle pene del Figlio! Lasciate, amabilissima Madre, che, presso la croce di Gesù, noi siamo sempre unite a voi e con voi attingiamo a quel sangue purissimo, perché ciascuno di noi lo beva per esserne inebriato. Nel giorno estremo della nostra morte avverrà che, vedendoci il supremo Giudice purificati dal suo stesso sangue, ci separi dai capretti impuri, cioè dai peccatori, e ci collochi fra gli agnelli innocenti, cioè tra i giusti nel trionfo beatissimo del paradiso.

Eja Mater, fons amoris, me sentire vim doloris, fac ut tecum lugeam…
Iuxta crucem tecum stare et me tibi sociare in planctu desidero…
Quando corpus morietur, fac ut animae donetur paradisi gloria . Amen.